Premessa: non rientra negli intenti di questo blog entrare direttamente nell'arena delle schermaglie dei partiti italiani. Ci interessa, invece, parlare della vita spirituale, culturale, sociale e quindi politica della nazione.
Pertanto trovo che sia opportuno dire la mia sui ben noti eventi di cronaca di questi giorni – quelli riguardanti il presidente del Consiglio, intendiamoci; quegli stessi eventi che sono stati, in modo probabilmente del tutto ingiustificato ma senza dubbio efficace, subito trasformati in strumento di attacco politico e di ricerca del consenso.
La ricerca dei “mandanti morali”: ha un senso individuare una parte di responsabilità in una “certa” opposizione, cioè quella di Travaglio, di Pietro, Santoro e affini?
Anche ammettendo che i vari soggetti in questione si possano considerare parte di un unico fronte compatto, in che modo avrebbero contribuito a creare un clima di odio, un clima in cui la violenza possa prosperare e giungere all'esito dell'aggressione fisica nei confronti del premier?
Esigere che anche il presidente del Consiglio si assuma la responsabilità di affrontare fino in fondo i processi che lo riguardano e che sconti la sua pena qualora venisse condannato ha tutto a che vedere con una giusta esigenza di legalità, molto poco con la violenza. Criticare anche con veemenza gli errori veri o presunti della maggioranza fa parte della normale dialettica democratica, discende dalla libertà del parlare; e la libertà del parlare è per sua stessa natura incompatibile con gesti – come quello di tirare un oggetto contundente contro la faccia di chi si odia – che hanno lo scopo di sopraffare, sopprimere, mettere a tacere l'altro.

L'altro in questo caso è il nostro presidente del Consiglio: e in una civiltà che vuole stare alle regole della democrazia, l'unico modo accettabile per sopraffare i propri avversari politici è batterli alle urne. E' una frase che dopo il fattaccio viene ripetuta innumerevoli volte. Ed è senz'altro una delle cose più giuste e sensate che si sentono dire in questi giorni.
Forse dovremmo ricordarci, quindi, che il leader di uno dei partiti della maggioranza (Bossi), appena qualche mese fa esortava il popolo padano a imbracciare i fucili e minacciava di far valere la volontà della propria fazione con la forza. Potremmo anche chiederci quanto lo stesso premier tenga alle regole della democrazia: i suoi atteggiamenti (senza voler citare la sua affiliazione alla loggia massonica P2, potremmo prendere il caso europa 7, il cosiddetto “editto bulgaro”, o il caso più recente del lodo Alfano, ritenuto incostituzionale) denotano una certa insistente tentazione ad usare le possibilità fornitegli dalla democrazia per manipolare, deformare e restringere la democrazia stessa. Ecco, quindi, da dove nasce l'esigenza di una forte opposizione che metta in luce questi aspetti (più o meno condivisibili, ma sicuramente presenti) del suo operare.

Opposizione che in ogni caso non può e non deve fare di Berlusconi una sorta di feticcio, un capro espiatorio a cui attribuire la colpa di tutti i mali del paese.
In questo senso l'atto di odio di Tartaglia, oltre ad essere bestiale e degno di biasimo, è inutile e perfino controproducente. Se pure un domani Berlusconi venisse ucciso in un attentato, assunto in Cielo o rapito dagli extraterrestri, cosa cambierebbe? Scomparso Berlusconi, scomparirebbe la cultura che ne ha consentito l'ascesa?
Ci sono milioni di italiani che, oltre ad avergli accordato la preferenza politica, si rispecchiano pienamente nel suo modus agendi, nelle sue idee di governo, e nello stile di vita proposto dalle sue televisioni commerciali ( che il documentario Videocracy descrive abbondantemente). Lo dimostra il fatto che ben presto anche la televisione di Stato ha scelto di adeguarsi al modello di gran lunga vincente proposto dalla Mediaset (ed il risultato è che oggi la Rai in buona parte ne è solo una copia sbiadita). Oggi ci sono sicuramente migliaia di giovani e meno giovani disposti a offrire qualsiasi cosa pur di ottenere una fugace apparizione sul piccolo schermo, e non ci sarebbe bisogno di richiamare alla memoria gli scandali degli ultimi anni per esserne certi.
La connivenza dello Stato con le lobby di potere e con la criminalità organizzata per il controllo del Sud ha una lunghissima storia alle spalle. Se anche Berlusconi venisse riconosciuto colpevole, il suo sarebbe solo l'ultimo di una interminabile serie di episodi che vanno dall'Unità d'Italia ad oggi. Così come quello dell'inefficienza dei governi locali e della pubblica amministrazione non è certo un problema recente, né è ascrivibile ai soli governi di destra.

Fare di Berlusconi l'unico bersaglio, un idolo, un feticcio, vederlo come un Santo o come il Male assoluto del paese è il modo migliore per disconoscere la scomoda realtà delle cose. E la realtà delle cose è che l'Italia non tornerà magicamente a fiorire quando Berlusconi avrà finito il suo ruolo in politica. Perchè l'ascesa di Berlusconi è stata resa possibile da una società disillusa, stanca e profondamente corrotta. Questa società c'è ancora. La classe politica che oggi ci ritroviamo, maggioranza e opposizione, è figlia della nostra nazione. Non ce la siamo ritrovata tra capo e collo: siamo stati noi ad allevarla con la nostra straordinaria capacità di dimenticarci dell'interesse pubblico nel nome delle nostre piccole e meschine convenienze private; l'abbiamo accudita con la pigrizia ed il disinteresse che ci appartengono. Non culliamoci, quindi, nell'illusione che sia stato un individuo solo a far scendere il nostro paese nel baratro. Nello stato attuale delle cose, solo una profonda e sincera rivoluzione culturale può cambiare questo paese. Ma rivoluzione culturale significa assumersi le proprie responsabilità e decidere di contribuire in prima persona al cambiamento. A partire da oggi.
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Mentre in Italia l'attenzione di molti è focalizzata sul dibattito riguardo la pillola abortiva RU486, come se fosse qualcosa di più che una prassi medica come tante per l'interruzione della gravidanza e consentirne o vietarne l'uso potesse rivelarsi determinante per la soluzione della questione sull'aborto (che, almeno per lo stato italiano, è stata invece già ampiamente risolta dalla legge 194/78), nel mondo accadono casi che dovrebbero farci riflettere criticamente sui presupposti in base ai quali presumiamo di poter distinguere nettamente ciò che è umano e ciò che non lo è, di poter tracciare una sicura linea di demarcazione tra vita autocosciente investita di diritti e mera esistenza biologica che, essendo al di fuori di qualsiasi tutela legale, può essere impunemente rimossa.

Il 9 settembre a Gorleston, Norfolk, Sarah Capewell ha visto morire suo figlio, dato alla luce il quinto giorno della ventunesima settimana di gravidanza. In Gran Bretagna la terapia intensiva per i nati prematuri è prevista a partire dalla ventiduesima settimana. Questo perchè, come i medici hanno risposto alle richieste della madre per le cure necessarie alla sopravvivenza del figlio, le probabilità di sopravvivenza per chi nasce così prematuramente sono molto basse ( per quelli nati durante la ventitreesima settimana si aggirano intorno al 16% ). E perchè a quanto sembra fino al raggiungimento della ventiduesima settimana (appena quarantott'ore dopo) di sviluppo la legge avrebbe definito suo figlio un feto, non un neonato. E ai feti non sono garantiti diritti giuridici, quindi neppure quello alle cure necessarie per avere una chance di sopravvivere.
La vicenda è talmente forte da sollevare le nostre perplessità riguardo l'opportunità di pubblicare un articolo al riguardo. Ha però la caratteristica di evidenziare con forza drammatica l'assoluta inadeguatezza della nostra mente a deliberare su temi come la vita e la morte, temi che sono tanto fondamentali per il nostro essere uomini quanto evanescenti. Sollecitare la discussione partendo da simili fatti, fatti scandalosi e difficili da digerire, può però porre sotto gli occhi di tutti l'urgenza con cui dovremmo tornare a interrogarci su simili questioni, che riguardano l'essenza di qualsiasi possibile concezione dell'uomo. Di fronte ad un caso simile appare chiaro come ogni pretesa di tracciare una separazione a priori tra vita umana e “semplici aggregati di funzioni biologiche” sia una decisione obbligatoriamente arbitraria e priva di punti di riferimento oggettivi.

Noi non sappiamo esattamente cosa sia il miracolo dell'autocoscienza, né quando accade né come. E se il possesso di diritti è legato all'autocoscienza, è chiaro che se si vuole tentare di distinguere tra un “prima” e un “dopo”, lo si fa senza conoscere ciò di cui si parla.
La coscienza, l'individualità, la percezione di sé si formano con un processo graduale, le cui tappe ci sfuggono. Sono destinate inevitabilmente a sfuggirci: l' unica maniera per conoscere uno stato di coscienza è provarlo in prima persona, e nessuno di noi sa ( o, per meglio dire, ricorda ) cosa prova un neonato, cosa sente, né men che un feto. Benchè – com'è ovvio – i neonati siano tutelati legalmente, per quanto ne sappiamo la loro coscienza individuale potrebbe diventare completamente formata solo più avanti negli anni. Poste queste ovvie premesse ci verrebbe da dire che qualunque cosa sia di preciso la coscienza, se essa è, come sembra, strettamente connessa alla presenza di un sistema nervoso centrale, allora da quando lo stesso sistema nervoso centrale raggiunge un certo stadio si sviluppo dobbiamo riconoscere alla creatura una sia pur primitiva forma di consapevolezza. Almeno da quel momento in poi non si può più parlare di materia inerte. E' già una forma di vita che si può definire umana? Chiaramente dal punto di vista delle capacità cerebrali, dal punto di vista della capacità di ragionamento e di una percezione di sé completamente sviluppata, no – ma, come abbiamo già detto, probabilmente non c'è un unico punto di svolta in cui una generica forma di coscienza si trasforma in coscienza umana, ma una crescita graduale.

Che il feto non si possa mai ridurre a pura e semplice materia di cui è lecito disporre a proprio piacimento ce lo suggerisce anche la genetica: dal momento della fecondazione dell'ovulo la creatura ha già un suo dna individuale – per cui, seppur dentro il corpo della madre e da esso dipendente, è già un organismo a sé stante. E, pur senza voler recuperare teorie di Aristotele che alla sensibilità moderna possono sembrare vetuste e inattuali, ci sentiamo di affermare che il feto è già un essere umano “in potenza”: stando alle informazioni contenute nel suo codice genetico è già come “programmato” per diventare nel corso della crescita un individuo umano in tutto e per tutto.

Concludiamo con una breve riflessione volta a chiarire il nostro punto di vita. Qualsiasi teoria formulata su basi dogmatiche religiose ha in sé la caratteristica di non poter per sua stessa natura essere applicata a chi non condivide quel credo. Ma la tutela dell'embrione umano non è una questione che veda coinvolta da una parte una mentalità religiosa e dall'altra una concezione laica della vita. E' per il principio di autodeterminazione a noi caro – e tante volte innalzato a principio fondante dello stato laico – che riteniamo che qualunque cosa si voglia considerare l'essere umano, pura esistenza materiale e biologica, unione di anima e corpo o chissà cos'altro, l'unica autorità in grado di decidere della vita e della morte di un individuo sia l'individuo stesso. E dato che, per le ragioni di cui sopra, riteniamo che non ci sia modo di tracciare un confine temporale netto che ci indichi quando la biologia si trasforma in autocoscienza, e che l'embrione sia già perlomeno un individuo “in potenza”, anche il feto e l'individuo che è o che diventerà vada protetto da chiunque voglia esercitare il diritto di vita e di morte in sua vece. Fatti salvi ovviamente i casi “di confine” in cui la sua crescita può compromettere per ragioni mediche la sopravvivenza della madre.
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Nell’opera Umano troppo umano, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche scrive una tagliente sentenza a riguardo del cristianesimo (una tra le tante): «Quando la domenica mattina sentiamo rimbombare le vecchie campane ci chiediamo: “Ma è mai possibile!Suonano per un ebreo crocifisso duemila anni fa, che diceva di essere figlio di Dio!”»
Se il filosofo tornasse oggi e leggesse i nostri giornali probabilmente pronuncerebbe nuovamente questa sentenza,riferendola stavolta non più alle “vecchie campane” bensì alla nuova polemica suscitata in seguito alla disposizione della Corte Europea che prevede di togliere dalle scuole nientemeno che il simbolo di quell'ebreo crocifisso. 
Anche noi ci chiediamo: è mai possibile? E’ mai possibile che, tra i tanti problemi di cui l’Europa dovrebbe (e deve) occuparsi si pensi proprio a condannare quella prassi secolare della sua società, quella di affiggere il simbolo del cristianesimo, la croce? Ed è mai possibile che ci si accanisca così tanto sulla questione? Viviamo in stati laici, dunque dovremmo essere d’accordo con la sentenza della Corte. Perchè allora tanta opposizione che è arrivata, in alcuni casi, a promettere quasi fino alla morte la difesa del crocifisso? Per zelo religioso in puro stile ebraico oppure per semplice shock culturale? Per analizzare il problema dobbiamo dare due spiegazioni: che cosa rappresenta in sè il crocifisso e che cosa rappresenta agli occhi delle persone, sia di quelle che lo vogliono lasciare appeso, sia di quelle che lo vogliono appeso solo altrove. Ciò che rappresenta in sé è facilmente intuibile: è la rappresentazione del cuore del cristianesimo e cioè il sacrificio del dio che, per amore, nasce nel mondo come Gesù, Yeoshua di Nazaret e viene crocifisso a causa della malvagità umana, invitando tutti a prenderlo da esempio, a fare del sacrificio di sé finalizzato al bene altrui una radicale scelta esistenziale. Se è scelta implica un soggetto che prenda posizione, cosa che è in antitesi con il concetto di tradizione culturale che invece viene assimilata involontariamente. Dobbiamo allora capire come viene visto questo simbolo agli occhi di chi lo espone; occorre però fare prima una precisazione e cioè che, essendo stato il cristianesimo religione di stato per secoli, ha sempre affisso il simbolo della sua fede in tutti i luoghi della vita pubblica; questa è diventata un’abitudine che si è profondamente incarnata nella tradizione del popolo europeo. La differenza tra chi lo affiggeva perché profondamente convinto del messaggio che portava e chi lo affiggeva per convenzione, usanza o magari per scongiuro o ancor di più per sfruttarne il risvolto politico non era individuabile perché non era possibile professarsi pubblicamente non cristiani, figuriamoci rifiutare l’affissione del crocifisso nei luoghi pubblici. Oggi invece questo è possibile ed è anche possibile, per chi non abbraccia la prospettiva cristiana,vederlo come un semplice residuo di un’epoca passata. 
C’è allora chi lo vede come espressione della sua scelta esistenziale, chi come una normale tradizione del suo popolo, chi ancora come un simbolo dal quale non si sente rappresentato. La risposta allora non dovrebbe essere quella di togliere il crocifisso perché sentito come fastidioso o per risentimento personale (cosa che probabilmente ha influito sulla sentenza della Corte) né opporvisi perché si ha paura della scomparsa del cristianesimo dalla terra europea. Il problema infatti è che, se si espone un simbolo di fede, quindi di adesione esistenziale, in un luogo pubblico, significa che questo gesto è espressione della volontà delle persone che frequentano quel luogo; nel momento in cui, come nel nostro caso, ciò non corrisponde alla realtà perché la scelta esistenziale delle persone nei luoghi in questione non è la stessa, affiggere il crocifisso resta un gesto svuotato del suo scopo e cioè rappresentare una fede condivisa da tutti i membri che frequentano quelle mura. Ecco allora che rimane una semplice abitudine, consuetudine, tradizione. 
Chi crede nel crocifisso sa che questo deve essere affisso in primo luogo nell'intimo della propria persona; di conseguenza non sarà per lui un problema se, andando a scuola, non dovesse vederlo affisso nella parete frontale. E se addirittura dovesse essere l’unico a credere in quel simbolo, troverebbe estremamente coerente con l’ambiente la sua assenza. Allora si sforzerebbe di portarlo, non più nei muri ma, attraverso il suo esempio, nelle storie degli altri e non più in forma di legno ma in forma di vita.
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Il 15 ottobre un missile drone teleguidato ha fatto almeno quattro vittime nel Nord Waziristan, in territorio Pakistano. Il bombardamento è stato effettuato presumibilmente da forze statunitensi, intenzionate a colpire un sospetto campo militare talebano.

L'episodio, che ha trovato pochissima risonanza nei media, è solo l'ultimo di una lunga serie di attacchi degli USA in territorio pakistano, ed è uno dei meno gravi in termini di perdita di vite umane. Infatti è dal lontano 2004 che gli USA conducono in Pakistan una guerra segreta. Segreta perchè perlomeno per noi Italiani si è svolta, e continua a svolgersi, coperta da un silenzio quasi assoluto dei mass media. E segreta anche per via delle scelte tattiche delle forze americane: la quasi totalità degli attacchi è effettuata tramite bombardamenti mirati con missili-drone comandati a distanza, e con attacchi-ombra da parte di soldati sotto copertura.

Il principale teatro d'azione ha luogo nelle zone ad Amministrazione Federale (indicate nella mappa come FATA, ossia "federally administered tribal areas") situate al confine con l'Afghanistan: queste, pur riservandosi una rappresentanza in parlamento ed essendo giuridicamente sotto il controllo dello stato pakistano, sono abitate da tribù con un forte spirito d' indipendenza; è  quì che hanno trovato asilo, e col tempo esteso la loro influenza, parte delle forze di Al Qaeda. Agli Stati Uniti è apparso, quindi, naturale includere il Pakistan tra le zone nel mirino della Guerra al Terrore. Nel 2006 a essere vittima dei bombardamenti americani fu, tra gli altri, anche il villaggio di Damadola, dove si riteneva che avesse trovato rifugio il “braccio destro” di Bin Laden, Ayman al-Zawahiri. In quell'occasione l'attacco causò almeno 18 morti tra cui, si ritiene, alcuni membri dell'organizzazione terroristica, ma non lo stesso Ayman, che al momento dell'attacco non si trovava nel paese. L'ottobre dello stesso anno un altro bombardamento alla madrasah (scuola religiosa islamica) di Chenagai, che si dice fosse utilizzata come campo d'addestramento, fece almeno 80 morti. L'8 Settembre '08 l'attacco ad un'altra madrasah, quella di Daande Darpkhel fece 23 vittime, tra cui otto bambini, e perlomeno 18 feriti. Ci siamo limitati a citare solo pochissimi tra i casi degli ultimi anni, di cui è disponibile in rete una cronologia ben più completa che parte dai primi, sparuti attacchi nel 2004 e si prolunga fino a quelli, decisamente più numerosi, avvenuti nel corso dell'anno corrente.

Gli attacchi condotti dagli USA nelle regioni federali si aggiungono a precedenti scontri per il controllo del territorio tra l'amministrazione centrale del Pakistan e le tribù delle Aree ad Amministrazione Federale. Malgrado voci insistenti farebbero supporre l'utilizzo di basi pakistane per il decollo dei droni americani, il governo del Pakistan - attualmente in mano a Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto - ha negato ogni coinvolgimento negli attacchi, e anzi ha sempre definito questi attacchi americani, che a suo dire verrebbero condotti unilateralmente senza la collaborazione con le forze pakistane, come una vera e propria violazione della sovranità del Paese. Il mancato coinvolgimento del governo locale verrebbe giustificato, stando alle dichiarazioni americane, dal forte sospetto della presenza di simpatizzanti per al Qaeda all'interno dei servizi segreti del Pakistan.

Qualora effettivamente gli attacchi fossero condotti senza alcun coinvolgimento del governo locale, le circostanze giustificherebbero una simile violazione della sovranità pakistana? La presenza in uno stato di singoli gruppi terroristici, gruppi persino ostili al governo locale, sono una buona ragione per violarne impunemente i confini con delle azioni militari? E' lecito condurre, come nei fatti accade, una guerra contro uno stato che non ha alcun coinvolgimento nelle azioni dei terroristi annidati all'interno del proprio territorio?
La questione potrebbe sembrare una semplice sottigliezza formale e giuridica, se non tenessimo conto delle vittime civili e degli effetti dei bombardamenti americani sul territorio pakistano.
Potrebbe sembrare una questione superflua se, infine, non ci ricordassimo che tutto l'assetto internazionale odierno si basa su simili sottigliezze, sottigliezze come il principio secondo cui ciascuno Stato è sovrano del territorio compreso nei propri confini, territorio che non può essere legalmente violato da altri Stati. Ciascuno può immaginare che fine farebbe la già compromessa e illusoria stabilità dello scenario politico internazionale qualora la violazione di tali regole formali divenisse, sulla base di simili precedenti, la regola e non l'eccezione.


Aaron Allegra



Tra le fonti consultabili:
Times Online sull'attacco di Damadola

Sito della BBC
Sito del New York Times: bombardamento di Daande Darpkhel

Cronologia dei bombardamenti americani secondo il sito Pakistani Intellectuals






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Allontana il tuo pensiero da questa via di ricerca e non ti spinga su di essa l'abitudine di lasciarti guidare da un occhio che non vede, da un orecchio che rimbomba e dalla parola: giudica invece con ragione. (Parmenide)

Il documentario sopra titola "il Corpo delle donne", realizzato da Lorella Zanardo la quale prova, mi sembra con successo, a metter da parte l'occhio che non vede cercando di recuperare il volto considerato troppo rugoso per la porcellana televisiva.

Era questo l'intento del femminismo de "Una donna ha bisogno di un uomo come un pesce di una bicicletta"?


Sono queste donne, figlie e mamme , comparse mute o donne-piededitavolo, il frutto e il simbolo dell'emancipazione femminile?
Questo topos televisivo della donna è frutto di sfiducia nella reale possibilità che possa esistere parità de facto tra uomo e donna o è l'ennesima prevalicazione di una visione machista della donna all'interno del panorama televisivo?

Se la sfiducia è l'ingrediente che non ha fatto fermentare un'immediata e intensa ribellione a questa direzione, difficile risulta trovare motivazioni ragionevoli che giustifichino la visione del corpo-oggetto al di fuori di una visione rivisitata e resa "socialmente accettabile" del maschilismo di terza categoria.

A tal proposito Gad Lerner scrive nel suo blog riguardo A.Ricci:
"vedo in lui -che adora pensarsi nichilista e sovversivo- il Dante Alighieri del berlusconismo; cioè il vate che ha tradotto nella lingua volgare della televisione commerciale una mentalità degradante e misogena, da vitelloni e da frequentatori di casino, senza un passo avanti rispetto all’italietta puttaniera e clericale degli anni Cinquanta."

Ben vestito e con la falsa democrazia del telecomando questo libertinaggio sul corpo delle donne (c'è chi lo definisce "fascismo estetico" ma accostamenti cosi arditi li salto a piè pari) come era facile aspettarsi si è fatto strada fra gli uomini ma fuori da ogni aspettativa (o buon senso) ha preso possesso anche delle donne.

Sotto questa luce,o in questo buio, non è più la possibilità di poter lavorare e realizzarsi professionalmente pur avendo una famiglia  la conquista del nostro tempo (alludendo con "professionalmente" a capacità coltivate che trascendono la semplice esposizione di decoltè) ma la possibilità "di andare a letto con tanti uomini  e non venire considerate cattive ragazze".

La ricerca della parità si è trasformata in una disdicevole ricerca acritica di uguaglianza. Le opportunità nell'essere libere di fare e libere da pregiudizi si è trasformata in una continua ricerca di appagamento unidirezionale dal sexy per il sexy nel sexy (naturalmente per gusto e desiderio squisitamente maschile).

Le mie fiducie si ripongono nell'indisponibile femminilità donna che continuerà a esistere e prender piede a sfavore di una femminilità uomo unicamente dipinta con colori nudi che tanto hanno di volgare e veramente poco di sensuale.

Gabriele Pergola



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E' adesso o nell'immediato futuro che, secondo le autorità sanitarie, la diffusione dell' influenza A dovrebbe trasformarsi in pandemia. E' di scottante attualità, quindi, il dibattito sull'opportunità o meno della vaccinazione contro il contagio.
Tra tesi complottistiche più o meno verosimili e pronunciamenti di dubbia neutralità a favore della prevenzione, abbiamo provato a raccogliere e collegare meglio che potevamo alcuni dati. Ciascun lettore sarà poi libero di trarre le conclusioni che preferirà.

- Stando alle statistiche aggiornate alla data del 19 ottobre, i casi confermati di influenza suina sono più di 399.232 . Quelli mortali, 4735: in percentuale, circa l'1%. Una percentuale relativamente bassa: bisogna però specificare che i casi di decessi di persone che non presentavano debilitazioni precedenti alla malattia sono stati finora più alti rispetto alle normali influenze stagionali.

- La decisione del governo di non chiudere le scuole – teoricamente indice di una bassa valutazione del rischio – e la bassa percentuale di decessi di cui sopra fanno apparire ingiustificata l'entità della campagna di vaccinazione che, secondo le intenzioni del Ministero, sarà “la più grande vaccinazione di massa mai effettuata in Italia”: dovrebbe coprire il 40% della popolazione.

- I primi vaccini, a disposizione degli operatori sanitari e delle altre categorie a rischio, saranno pronti solo il 15 novembre, mentre le dosi destinate a giovani e anziani verranno distribuite a partire dalla fine dell'anno. Quando la malattia dovrebbe essere già in piena diffusione.

- Risale ad appena pochi anni fa il clamoroso caso di contaminazione dei vaccini contro l'influenza aviaria con campioni di virus vivi e letali. Contaminazione che la casa produttrice del farmaco ha sostenuto essere stata accidentale, sebbene l'alto protocollo di sicurezza della struttura in cui il vaccino è stato prodotto dovrebbe escludere la possibilità di errori tanto grossolani (e letali). Oggi a produrre il vaccino contro la pandemia dell'influenza A è la stessa casa farmaceutica incriminata, la Baxter.

- Stando ad una lettera delle autorità britanniche pubblicata sul Daily Mail risalente al 29 luglio, si temono eventuali connessioni tra alcune malattie neurologiche (sindrome di Guillain-Barrè ) ed il vaccino. Probabilmente questo timore si riferisce a ciò che accadde nel 1976 negli Stati Uniti: a seguito dell'allarme lanciato per una possibile diffusione pandemica di influenza suina – allarme che si rivelò essere una bolla di sapone – fu avviata una massiccia campagna di vaccinazione: si registrarono più di 500 casi di sindrome di Guillain-Barrè tra coloro che avevano assunto il farmaco, farmaco che causò più decessi dell'influenza stessa. Il vaccino fu ritirato dal commercio dopo appena dieci settimane.

Detto ciò riteniamo opportuno sottolineare, benchè possa sembrare ovvio, che nessuno di noi può avanzare una previsione realistica sull'effettiva letalità della pandemia prevista per quest'autunno ( sempre che, e non ce lo auguriamo di certo, di pandemia si tratterà ). Nessuno può sapere con certezza se si rivelerà più saggio vaccinarsi o meno. Ma, stando ai dati attualmente nostra disposizione e alla stima del rapporto rischio/beneficio che da essi ci sentiamo di dedurre, ci sembra doveroso invitare alla prudenza e ad una più meditata valutazione chiunque abbia già deciso, forse a cuor leggero, di vaccinarsi non appena il farmaco sarà disponibile. Dal canto nostro ci ripromettiamo di approfondire nelle settimane a venire alcuni degli aspetti più interessanti del problema di cui qui ci siamo limitati a fornire un breve riassunto: cercando, per quanto possibile, di porre luce su una questione che probabilmente influenzerà in modo decisivo il nostro futuro prossimo.

Aaron Allegra
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Vorrei che riflettessimo riguardo al recente attentato avvenuto in Afghanistan contro i militari italiani della Folgore che ha causato la morte di sei uomini. Gli attentatori,i Talebani,sono persone estremamente pericolose, frutto di un’educazione religiosa da quattro soldi, abituati a risolvere i problemi con la violenza, traboccanti di presunzione che li fa sentire i veri riformatori dello stato musulmano. Hanno sfruttato appieno il punto debole della religione: il suo essere vulnerabile a strumentalizzazioni finalizzate alla giustificazione di atti di violenza.

Di fronte ad una tale situazione, la soluzione più evidente sembra essere quella adottata dagli States,seguiti a ruota dall’Italia,ossia la cosidetta “pacificazione”,eliminazione dei nemici che ostacolano lo sviluppo della democrazia. D’altronde, noi occidentali ci sentiamo maestri di democrazia, ma forse dovremmo essere i primi ad imparare, visto il marciume di cui è macchiato il nostro sistema. Un esempio palese di quanto siamo democratici e rispettosi della pace è che siamo, al secondo posto dopo gli USA, i maggiori produttori di armi. Le stesse armi che vengono comprate dai terribili talebani, le stesse armi contro le quali, probabilmente, combattevano i sei della Folgore!

Piangere dunque per la morte di ragazzi mandati a combattere una guerra da noi stessi fomentata in nome del Sacro Dio Denaro adorato tramite il commercio di armamenti,appare come una disgustosa ipocrisia. E’ ovvio che ciò non significa che la responsabilità sia tutta del mercato ,ciò toglierebbe la responsabilità dei militanti fondamentalisti in quello che hanno fatto, ma dobbiamo almeno dire con oggettività che, mandare avanti il mercato bellico significa desiderare che ci siano guerre in cui vengano acquistati i suoi prodotti, guerre dunque impossibili senza tali mercati. E così entriamo in uno squallido circolo vizioso dove è sempre il profitto a dettare legge. Il governo italiano non può dirsi dispiaciuto per la morte dei suoi militari se poi una politica di disarmo,che ridurrebbe drasticamente tutte queste morti, non rientra nemmeno lontanamente nei suoi progetti.

E i sei della folgore? Erano consapevoli di tutto questo? Sapevano che accettando di partecipare a questa guerra si sarebbero offerti come vittime sacrificali per la adorata Divinità Monetaria? Sapevano che risolvere il problema con la violenza non salverà l’Afghanistan? Sapevano che l’Afghanistan è uno dei maggiori produttori di oppio e che lo commercia solitamente in cambio delle solite care vecchie armi? Il dolore per la loro morte è grande e non può essere altrimenti. Soltanto, però, penso che piuttosto che definirli martiri, come è stato fatto da alcuni, sarebbe meglio il termine vittime. Vittime di un’illusione: la “pacificazione” dell’Afghanistan; di una dittatura: il regime talebano; di un fariseo ipocrita: il governo e il suo mercato bellico, che si impegna a difendere una pace che viene ostacolata dai suoi stessi commerci. Difendere la pace con le stesse armi che la sopprimono. Forse a scuola non erano delle cime e si sono dimenticati un semplice concetto filosofico, il principio di non-contraddizione?

Pietro Lo Re
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Impegnandoci a non cadere in faziosità autoreferenziali, nella cronaca fine a se stessa e in una satira che non lascia spazio alla discussione, speriamo che la condivisione delle nostre premesse vi spinga a mettervi in gioco contribuendo attivamente alla creazione di un clima stimolante per lo sviluppo di proficue riflessioni.
Per rendere questo spazio uno spazio comune e maggiormente aperto al dibattito costruttivo e pacifico tra le più differenti posizioni, accetteremo anche riflessioni e articoli da parte di voci esterne allo staff, di chiunque sia in grado di esporre compiutamente e con rispetto il proprio pensiero.

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