Premessa: non rientra negli intenti di questo blog entrare direttamente nell'arena delle schermaglie dei partiti italiani. Ci interessa, invece, parlare della vita spirituale, culturale, sociale e quindi politica della nazione.
Pertanto trovo che sia opportuno dire la mia sui ben noti eventi di cronaca di questi giorni – quelli riguardanti il presidente del Consiglio, intendiamoci; quegli stessi eventi che sono stati, in modo probabilmente del tutto ingiustificato ma senza dubbio efficace, subito trasformati in strumento di attacco politico e di ricerca del consenso.
La ricerca dei “mandanti morali”: ha un senso individuare una parte di responsabilità in una “certa” opposizione, cioè quella di Travaglio, di Pietro, Santoro e affini?
Anche ammettendo che i vari soggetti in questione si possano considerare parte di un unico fronte compatto, in che modo avrebbero contribuito a creare un clima di odio, un clima in cui la violenza possa prosperare e giungere all'esito dell'aggressione fisica nei confronti del premier?
Esigere che anche il presidente del Consiglio si assuma la responsabilità di affrontare fino in fondo i processi che lo riguardano e che sconti la sua pena qualora venisse condannato ha tutto a che vedere con una giusta esigenza di legalità, molto poco con la violenza. Criticare anche con veemenza gli errori veri o presunti della maggioranza fa parte della normale dialettica democratica, discende dalla libertà del parlare; e la libertà del parlare è per sua stessa natura incompatibile con gesti – come quello di tirare un oggetto contundente contro la faccia di chi si odia – che hanno lo scopo di sopraffare, sopprimere, mettere a tacere l'altro.

L'altro in questo caso è il nostro presidente del Consiglio: e in una civiltà che vuole stare alle regole della democrazia, l'unico modo accettabile per sopraffare i propri avversari politici è batterli alle urne. E' una frase che dopo il fattaccio viene ripetuta innumerevoli volte. Ed è senz'altro una delle cose più giuste e sensate che si sentono dire in questi giorni.
Forse dovremmo ricordarci, quindi, che il leader di uno dei partiti della maggioranza (Bossi), appena qualche mese fa esortava il popolo padano a imbracciare i fucili e minacciava di far valere la volontà della propria fazione con la forza. Potremmo anche chiederci quanto lo stesso premier tenga alle regole della democrazia: i suoi atteggiamenti (senza voler citare la sua affiliazione alla loggia massonica P2, potremmo prendere il caso europa 7, il cosiddetto “editto bulgaro”, o il caso più recente del lodo Alfano, ritenuto incostituzionale) denotano una certa insistente tentazione ad usare le possibilità fornitegli dalla democrazia per manipolare, deformare e restringere la democrazia stessa. Ecco, quindi, da dove nasce l'esigenza di una forte opposizione che metta in luce questi aspetti (più o meno condivisibili, ma sicuramente presenti) del suo operare.

Opposizione che in ogni caso non può e non deve fare di Berlusconi una sorta di feticcio, un capro espiatorio a cui attribuire la colpa di tutti i mali del paese.
In questo senso l'atto di odio di Tartaglia, oltre ad essere bestiale e degno di biasimo, è inutile e perfino controproducente. Se pure un domani Berlusconi venisse ucciso in un attentato, assunto in Cielo o rapito dagli extraterrestri, cosa cambierebbe? Scomparso Berlusconi, scomparirebbe la cultura che ne ha consentito l'ascesa?
Ci sono milioni di italiani che, oltre ad avergli accordato la preferenza politica, si rispecchiano pienamente nel suo modus agendi, nelle sue idee di governo, e nello stile di vita proposto dalle sue televisioni commerciali ( che il documentario Videocracy descrive abbondantemente). Lo dimostra il fatto che ben presto anche la televisione di Stato ha scelto di adeguarsi al modello di gran lunga vincente proposto dalla Mediaset (ed il risultato è che oggi la Rai in buona parte ne è solo una copia sbiadita). Oggi ci sono sicuramente migliaia di giovani e meno giovani disposti a offrire qualsiasi cosa pur di ottenere una fugace apparizione sul piccolo schermo, e non ci sarebbe bisogno di richiamare alla memoria gli scandali degli ultimi anni per esserne certi.
La connivenza dello Stato con le lobby di potere e con la criminalità organizzata per il controllo del Sud ha una lunghissima storia alle spalle. Se anche Berlusconi venisse riconosciuto colpevole, il suo sarebbe solo l'ultimo di una interminabile serie di episodi che vanno dall'Unità d'Italia ad oggi. Così come quello dell'inefficienza dei governi locali e della pubblica amministrazione non è certo un problema recente, né è ascrivibile ai soli governi di destra.

Fare di Berlusconi l'unico bersaglio, un idolo, un feticcio, vederlo come un Santo o come il Male assoluto del paese è il modo migliore per disconoscere la scomoda realtà delle cose. E la realtà delle cose è che l'Italia non tornerà magicamente a fiorire quando Berlusconi avrà finito il suo ruolo in politica. Perchè l'ascesa di Berlusconi è stata resa possibile da una società disillusa, stanca e profondamente corrotta. Questa società c'è ancora. La classe politica che oggi ci ritroviamo, maggioranza e opposizione, è figlia della nostra nazione. Non ce la siamo ritrovata tra capo e collo: siamo stati noi ad allevarla con la nostra straordinaria capacità di dimenticarci dell'interesse pubblico nel nome delle nostre piccole e meschine convenienze private; l'abbiamo accudita con la pigrizia ed il disinteresse che ci appartengono. Non culliamoci, quindi, nell'illusione che sia stato un individuo solo a far scendere il nostro paese nel baratro. Nello stato attuale delle cose, solo una profonda e sincera rivoluzione culturale può cambiare questo paese. Ma rivoluzione culturale significa assumersi le proprie responsabilità e decidere di contribuire in prima persona al cambiamento. A partire da oggi.
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Mentre in Italia l'attenzione di molti è focalizzata sul dibattito riguardo la pillola abortiva RU486, come se fosse qualcosa di più che una prassi medica come tante per l'interruzione della gravidanza e consentirne o vietarne l'uso potesse rivelarsi determinante per la soluzione della questione sull'aborto (che, almeno per lo stato italiano, è stata invece già ampiamente risolta dalla legge 194/78), nel mondo accadono casi che dovrebbero farci riflettere criticamente sui presupposti in base ai quali presumiamo di poter distinguere nettamente ciò che è umano e ciò che non lo è, di poter tracciare una sicura linea di demarcazione tra vita autocosciente investita di diritti e mera esistenza biologica che, essendo al di fuori di qualsiasi tutela legale, può essere impunemente rimossa.

Il 9 settembre a Gorleston, Norfolk, Sarah Capewell ha visto morire suo figlio, dato alla luce il quinto giorno della ventunesima settimana di gravidanza. In Gran Bretagna la terapia intensiva per i nati prematuri è prevista a partire dalla ventiduesima settimana. Questo perchè, come i medici hanno risposto alle richieste della madre per le cure necessarie alla sopravvivenza del figlio, le probabilità di sopravvivenza per chi nasce così prematuramente sono molto basse ( per quelli nati durante la ventitreesima settimana si aggirano intorno al 16% ). E perchè a quanto sembra fino al raggiungimento della ventiduesima settimana (appena quarantott'ore dopo) di sviluppo la legge avrebbe definito suo figlio un feto, non un neonato. E ai feti non sono garantiti diritti giuridici, quindi neppure quello alle cure necessarie per avere una chance di sopravvivere.
La vicenda è talmente forte da sollevare le nostre perplessità riguardo l'opportunità di pubblicare un articolo al riguardo. Ha però la caratteristica di evidenziare con forza drammatica l'assoluta inadeguatezza della nostra mente a deliberare su temi come la vita e la morte, temi che sono tanto fondamentali per il nostro essere uomini quanto evanescenti. Sollecitare la discussione partendo da simili fatti, fatti scandalosi e difficili da digerire, può però porre sotto gli occhi di tutti l'urgenza con cui dovremmo tornare a interrogarci su simili questioni, che riguardano l'essenza di qualsiasi possibile concezione dell'uomo. Di fronte ad un caso simile appare chiaro come ogni pretesa di tracciare una separazione a priori tra vita umana e “semplici aggregati di funzioni biologiche” sia una decisione obbligatoriamente arbitraria e priva di punti di riferimento oggettivi.

Noi non sappiamo esattamente cosa sia il miracolo dell'autocoscienza, né quando accade né come. E se il possesso di diritti è legato all'autocoscienza, è chiaro che se si vuole tentare di distinguere tra un “prima” e un “dopo”, lo si fa senza conoscere ciò di cui si parla.
La coscienza, l'individualità, la percezione di sé si formano con un processo graduale, le cui tappe ci sfuggono. Sono destinate inevitabilmente a sfuggirci: l' unica maniera per conoscere uno stato di coscienza è provarlo in prima persona, e nessuno di noi sa ( o, per meglio dire, ricorda ) cosa prova un neonato, cosa sente, né men che un feto. Benchè – com'è ovvio – i neonati siano tutelati legalmente, per quanto ne sappiamo la loro coscienza individuale potrebbe diventare completamente formata solo più avanti negli anni. Poste queste ovvie premesse ci verrebbe da dire che qualunque cosa sia di preciso la coscienza, se essa è, come sembra, strettamente connessa alla presenza di un sistema nervoso centrale, allora da quando lo stesso sistema nervoso centrale raggiunge un certo stadio si sviluppo dobbiamo riconoscere alla creatura una sia pur primitiva forma di consapevolezza. Almeno da quel momento in poi non si può più parlare di materia inerte. E' già una forma di vita che si può definire umana? Chiaramente dal punto di vista delle capacità cerebrali, dal punto di vista della capacità di ragionamento e di una percezione di sé completamente sviluppata, no – ma, come abbiamo già detto, probabilmente non c'è un unico punto di svolta in cui una generica forma di coscienza si trasforma in coscienza umana, ma una crescita graduale.

Che il feto non si possa mai ridurre a pura e semplice materia di cui è lecito disporre a proprio piacimento ce lo suggerisce anche la genetica: dal momento della fecondazione dell'ovulo la creatura ha già un suo dna individuale – per cui, seppur dentro il corpo della madre e da esso dipendente, è già un organismo a sé stante. E, pur senza voler recuperare teorie di Aristotele che alla sensibilità moderna possono sembrare vetuste e inattuali, ci sentiamo di affermare che il feto è già un essere umano “in potenza”: stando alle informazioni contenute nel suo codice genetico è già come “programmato” per diventare nel corso della crescita un individuo umano in tutto e per tutto.

Concludiamo con una breve riflessione volta a chiarire il nostro punto di vita. Qualsiasi teoria formulata su basi dogmatiche religiose ha in sé la caratteristica di non poter per sua stessa natura essere applicata a chi non condivide quel credo. Ma la tutela dell'embrione umano non è una questione che veda coinvolta da una parte una mentalità religiosa e dall'altra una concezione laica della vita. E' per il principio di autodeterminazione a noi caro – e tante volte innalzato a principio fondante dello stato laico – che riteniamo che qualunque cosa si voglia considerare l'essere umano, pura esistenza materiale e biologica, unione di anima e corpo o chissà cos'altro, l'unica autorità in grado di decidere della vita e della morte di un individuo sia l'individuo stesso. E dato che, per le ragioni di cui sopra, riteniamo che non ci sia modo di tracciare un confine temporale netto che ci indichi quando la biologia si trasforma in autocoscienza, e che l'embrione sia già perlomeno un individuo “in potenza”, anche il feto e l'individuo che è o che diventerà vada protetto da chiunque voglia esercitare il diritto di vita e di morte in sua vece. Fatti salvi ovviamente i casi “di confine” in cui la sua crescita può compromettere per ragioni mediche la sopravvivenza della madre.
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