Quale che sia la superiorità intellettuale di un uomo, non può mai assumere una supremazia pratica e utile sugli altri, senza l'aiuto di qualche artificio o schermo, che in sé sarà sempre più o meno basso e meschino. E’ questo che tiene sempre lontani dalle campagne elettorali i veri principi di Dio e dell’Impero; e lascia che i più alti onori che questo nostro mondo può dare vadano a quelli che si rendono famosi più per la loro infinita inferiorità a quel segreto e scelto manipolo della Divina Inerzia, che non per la loro indubbia superiorità sul livello morto della massa.
                                                                                                                                      Herman Melville – Moby Dick, cap.33

Un gruppo di ubriaconi, sbandati. Insieme a loro, come un principio ordinatore, Janos Valuska. Si è deciso a spiegare il processo che origina il fenomeno dell’eclissi solare. Ecco allora che un uomo, posto al centro della stanza, diventa il sole. Altri due verranno guidati nei movimenti della Terra e della Luna. Poi l’oscurità. Ma dura solo un momento, non c’è da temere, la danza cosmica può riprendere. Risuona una musica, che sia l’armonia delle sfere? L’orecchio è sicuro, l’occhio vede dei vecchi che imitano dei corpi celesti in modo stanco e goffo, qualche dubbio ce l’ha. Ma basta, il locale deve chiudere.
Che succede in paese? E’ in arrivo un tale, Il Principe; promette di mostrare la più grande balena del creato e altre meraviglie. I cittadini si dividono tra eccitazione e paura, corrono strane voci, c’è chi dice che la balena non ha nulla a che vedere col resto, c’è chi dice che è la causa di tutto. Ciò non concerne il filosofo Eszter, occupato a indagare su uno “scandalo accettato da secoli e particolarmente sconfortante”. Ai tempi di Pitagora si utilizzavano solamente le sette note e si accordava in modo naturale, non c’era pretesa di musica divina. In seguito si è diventati superbi, Werckmeister ha ultimato la scomposizione in semitoni e l’invenzione di un sistema di accordatura che permette di suonare in tutte le tonalità. Ogni singolo accordo di un capolavoro musicale è basato sull’inganno. I più insicuri lo chiamano compromesso. Nel limite, però, l’alta magia sonora si perde, tutt’al più stride. Dilemma.
Janos è più interessato all’enorme container giunto in piazza. Sarà l’unico, tra la folla di curiosi, che oserà entrare. Il resto lo lascio a chi avrà la voglia di accompagnarlo.



Béla Tarr, regista ungherese contemporaneo, nel lontano 2000 regalò al mondo questo film. Va detto, la sua precedente filmografia è un’onesta dichiarazione di stile e di intenti, quei pochi che l’avessero seguito si sarebbero potuti dire preparati a tutto. Insomma, prima di questo è venuto Sátántangó, lungometraggio dall’invereconda durata di 435 minuti. Per i molti, troppi ahimè, che non lo sanno: cosa ci si deve aspettare? In termini di forma, innanzitutto una fotografia in bianco e nero nebbiosa, attenta in particolare ad evidenziare per eccesso di ombre. Lunghissimi, quasi inconcepibili, piani-sequenza che svolgono la funzione di dilatare il tempo della narrazione affinché lo spettatore non la percepisca più come tale, ma piuttosto come una realtà vera e propria(esemplari le scene dove si seguono i personaggi per lunghe camminate). Ma soprattutto, in onore o in beffa dell’argomento del titolo, una colonna sonora così bella da ferire l’anima; opera del compositore Mihály Vig, che aveva collaborato con Tarr già in Damnation e Sátántangó (qui anche come attore).
Per quel che riguarda i contenuti, è ferma convinzione di chi scrive che non si possa in alcun modo arrivare preparati alla visione. Il film mira a cogliere lo spettatore senza difese e ci riesce così bene, nell’utilizzo dei soli mezzi cinematografici, che anche leggere una descrizione dettagliata degli eventi non cambierebbe di molto le cose. E’ chiaro che non bisogna essere in cerca di una trama avvincente, non si tratta di mero intrattenimento. E’ possibile rimanere intrigati dalla vicenda, così come annoiati, in relazione a particolari frangenti. Chi è Il Principe? Cosa rappresenta la balena? Nella terrificante cornice data dall’esercizio di un potere egemone, si viene messi a fronte di diversi quesiti, espliciti e non, su temi che spaziano dal rapporto tra uomo e natura alla crisi dell’autenticità umana. E ancora l’inconoscibile, l’indicibile, la malinconia data dalla testimonianza dell’essere: tutti elementi propri della poesia. Inutile quindi fare una parafrasi, cercare di spiegare o trasmettere la dolorosa emozione che è possibile provare in certi momenti della pellicola
Durante un festival, dopo la proiezione, qualcuno chiese “Dov’è la speranza?”, Tarr rispose “La speranza è che voi vediate questo film”.


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   Quali livelli di abiezione potrebbe raggiungere l’umanità se abbandonasse ogni forma di sentimento morale e di speranza abbandonandosi alla più totale degradazione? Totò che visse due volte sembra essere un ottimo tentativo di risposta a questa domanda. Il film che Daniele Ciprì e Francesco Maresco hanno girato nell’ormai lontano 1998 presenta una Palermo squallida e degradata attraverso la narrazione di tre episodi che rivelano una situazione di vita assolutamente inquietante per la sua miseria: dalle vicende di un quartiere interessato unicamente a distrarsi dalla disperazione sfogando i propri istinti sessuali tra cinema porno e prostitute,passando per la tragica storia di due omosessuali perseguitati dalla famiglia fino ad arrivare ad una parodia grottesca e squallida della predicazione di Cristo,il tutto sostenuto da un cast di personaggi che non rispecchia esattamente il concetto di bellezza fisica né tantomeno morale e che stravolge persino i ruoli: chi vedrà il film provi a contare il numero di donne presenti nel corso delle vicende e resterà stupito dal risultato.

   Con dei presupposti simili era prevedibile il destino di “pellicola maledetta” che ha colpito l’opera:  di fronte a scene come quella del film porno in cui un uomo sodomizza un asino o di quella del ragazzo con problemi psichici che violenta una statua della Madonna è impossibile non comprendere i motivi che alla vigilia dell’uscita del film nelle sale hanno portato la censura italiana alla proibizione,poi non più applicata,della proiezione.
   Visionando la pellicola si ha l’impressione di trovarsi di fronte alla traduzione cinematografica del concetto di “degradazione” : scene come quelle descritte sopra,unite a paesaggi squallidi e desolati, ad un rigido bianco-nero e ad una colonna sonora (se così si può chiamare) che traduce il tutto in chiave musicale,rendono perfettamente l’idea e chi ha già visto il film potrà perfettamente capire. Nonostante possa sembrare incredibile,e a ragione, non mancano nemmeno le risate che non possono non scaturire,specialmente dallo spettatore palermitano,all’udire l’esprimersi nel più puro e sboccato dialetto del capoluogo siciliano di alcuni dei personaggi e soprattutto in situazioni inappropriate, come quando il Messia Totò si ritrova davanti alla gente che aspetta il suo “Discorso della montagna” ; tutto questo però,in realtà,non fa che rientrare perfettamente nell’atmosfera di fondo del film perché trovare il riso accostato a situazioni che forse non riuscirebbero a suscitare nemmeno il pianto rende il tutto ancora più squallido. Il nonsenso e l’annichilimento sembrano insomma essere le Muse ispiratrici delle vicende rappresentate.

   Sebbene il film sia stato accusato anche di blasfemia non è impossibile rendersi conto che l’intento dei registi non sembra essere quello di una critica alla religione quanto piuttosto quello di colpire a fondo la dimensione psichica ed emotiva: suscitare un senso di orrore,ma contemporaneamente di compassione,verso un’umanità disperata e necessariamente bisognosa di salvezza. Quale può essere infatti l’esigenza di girare un film simile? Perché i registi hanno voluto dar vita ad una pellicola così pesante da digerire? Il film della coppia Ciprì-Maresco meritava davvero la censura? Queste domande dovrebbero coinvolgere ogni opera d’arte che,in qualche modo, vuole rappresentare realtà difficili anche solo da immaginare; anche un quadro infatti può farlo,anzi, Totò che visse due volte più che una storia nel senso classico del termine sembra essere un macabro quadro che turba e che prende vita in forma di film.

   C’è da chiedersi quindi quale sia il valore di questo tipo di opere. Rappresentare il degrado in sé stesso, senza inserirlo in una dialettica in cui sono presenti anche realtà che lo superano o che almeno competono con esso in modo equivalente non può certo servire a dare un messaggio di speranza; il suo ruolo è forse allora quello di monito? Il “Vangelo degradato” del terzo episodio non è forse il ritratto di realtà che hanno perso ogni valore,anche quelli più importanti, e che quindi non possono che essere segnalate come fosse in cui dovremmo con tutte le nostre forze evitare di cadere?
  Una valida interpretazione fornita dal commento, estremamente esauriente,di Andrea Occhipinti, fondatore della Lucky Red,la casa cinematografica che ha distribuito il film: "Totò che visse due volte […] è uno di quei film che divide, perché mette dolorosamente a nudo il malessere che i registi vivono. Alla fine, esci dal cinema con una sensazione di disagio, non vedi una luce. Questo si può accettare o rifiutare, ma è il loro punto di vista. Ti dà una scossa, ti fa pensare".


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Il periodo sembra grigio. I giovani italiani hanno poca speranza per il futuro sono sfiduciati nei confronti del lavoro e della vita. Descritti come bamboccioni, mammoni e svogliati dalla stessa casta politica che ha creato il sistema e che spesso ripudiano, sbandano prendendo la vita giorno per giorno cercando di esigere i diritti garantiti ai loro padri e finendo per non averne nessuno.

E' stata da poco emanata la legge finanziaria per il prossimo anno, e le prospettive sono di lacrime e sangue per riuscire a contenere la crisi economica che colpisce il nostro paese. Le proteste si scatenano per mostrare l’importanza del proprio universo lavorativo al parlamento nella speranza di attutire il colpo che si prospetta (e che in alcuni casi è già stato assestato) e i giovani sfogano la loro frustazione con più veemenza degli altri, come nel caso della protesta studentesca del 24-11 sfociata nella tentata irruzione a Palazzo Madama.

Questa tensione che serpeggia per il bel paese è da ricercarsi, a mio parere, nel timore e nella mancanza di prospettive nei confronti del futuro. Si teme che taglino lo stipendio sicuro aggiungendo persone al già nutrito numero di cassaintegrati oppure, riducendo i diritti dei lavoratori, si teme che lo stipendio sicuro non arrivi mai fra uno stage e un co.co.co.

Ma questo stipendio sicuro, visto in prospettiva, cos’è?

Senza invischiarci inutilmente nel roveto giuridico, in Italia sotto la denominazione “contratto a tempo indeterminato” (e quindi stipendio sicuro) risiede una categoria di lavoratori il cui status lavorativo è garantito e, specialmente in grandi aziende, a meno di circostanze del tutto eccezionali, letteralmente blindato (e quindi appunto sicuro).

La caratterizzazione di questa tipologia di lavoro ha costituito la spina dorsale dell’Italia del boom economico, garantendo la stabilità per accendere mutui e fondando la famiglia sulla sicurezza che il lavoro non sarebbe sparito a meno di avvenimenti straordinari, anzi, l’introito sarebbe progressivamente incrementato grazie all’anzianità accumulata.

Ma d’altro canto questo comporta, per sua stessa natura, una struttura endemicamente rigida, in un periodo di stagna economica (o quando la forza lavoro umana viene progressivamente sostituita dalle macchine o dai cinesi) poco affine ai licenziamenti e declassamenti tanto quanto alle assunzioni e alle promozioni, poco incline a premiare il merito chiusa nella statiticità che la contriddistingue.

Il problema sorge nel 2011, dove a differenza che nel 1960, a causa di progresso tecnologico e globalizzazione economica, un paese non può permettersi di basare la competitività su una struttura gerarchica (governo degli anziani) e statica. L’eccessiva sicurezza e garanzia ha condotto molti lavoratori delle grandi aziende a sedersi sugli allori consci del fatto che, lavorando bene o lavorando male, domani come oggi, lo stipendio ci sarebbe stato comunque e ciò ha infiacchito la struttura produttiva made in Italy di cui andiamo tanto fieri. Le bordate di neo-laureati sotto le fanfare del classico “studia che ti fai una posizione” (coltivato nell’Italia dei ’60 dove i pochi che erano riusciti a studiare avevano, per gli stessi motivi suddetti, una posizione garantita per diritto di essere “quei pochi che hanno studiato”. Quando “i pochi” sono diventati il 25/30% la garanzia inizia a scricchiolare), tutti con aspirazioni dirigenziali, si sono ritrovati senza posizioni libere e senza un sistema che selezionasse i più meritevoli.

Il sistema gerarchico e stabile ha finito creare una generazione di giovani con voglia di emergere ma senza possibilità di farlo, cresciuti convinti che le ore sui libri e i sabati in bianco sarebbero state ripagati in modo automatico da stipendi e posizioni principesche, alla ricerca di un lavoro in un mercato in generale declino, la cui statisticità gerarchica raramente avrebbe permesso di ricoprire cariche di rilievo in cui il sudato titolo fosse sfruttato a dovere; i neo-sovratitolati si sono quindi ritrovati costretti a ripiegare su lavori provvisori saturando il mercato dell’intelletto e finendo malpagati stagisti. In seno a tutto questo quindi è cresciuta una generazione lavorativa precaria per vocazione e malpagata per l’eccessiva offerta al fine di far da contrappeso alle garantite generazioni precedenti.

Ai giovani, e quindi a me stesso, rivolgo queste riflessioni: non cercate a tutti i costi un lavoro sicuro, cercatene uno appagante, la cui mobilità vi permetta di crescere, il cui compenso sia calibrato sul vostro lavoro perchè il vostro futuro non sarà imperniato ad un contratto che perde sempre più di valore e senso, ma alle vostre esperienze e alla vostra capacità di lavoratori.

Il problema nel mercato lavorativo odierno, in mia opinione, per i giovani non è tanto la mancanza di stabilità, ma anzi l’eccessiva stagnazione: la generale mancanza di investimento nella formazione, nella responsabilizzazione e, perchè no, nella ricompensa economica del sudato lavoro che sempre più è vittima di uno stillicidio al ribasso (proprio a causa della grande offerta di laureati disponibili).

Il nostro potere contrattuale non sta più nel contratto nazionale, inadeguato alle figure intelletuali del terzo millennio, ma sta nella nostra mente, nel non piegarci alle lusinghe di lavori che non ci ricompensino adeguatamente, che non nutrino ulteriormente il nostro cervello, ma ci inchiodino a guadagnare una frazione minuscola degli introiti che generiamo.

50 anni fa un operaio poteva comprare una casa con una 50ina di mensilità ed un dirigente di altissimo (CEO Fiat) profilo guadagnava 20 volte un operaio. Dopo tante lotte, oggi, un giovane laureato necessita di centinaia di mensilità per acquistare la sua casa, mentre la stessa posizione dirigenziale di un tempo garantisce stipendi proporzionalmente migliaia di volte superiori.
La forbice si è allargata, significa che il margine di guadagno c’è, dov’è finito se il nostro potere d’acquisto si è rarefatto e le nostre competenze moltiplicate? Nei giovani che chinano la testa accettando le condizioni della nuova schiavitù.


Inviatoci da Andrea Idini

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L’amicizia morale […] non si fonda su un patto esplicito, ma, sia che si faccia un dono, sia che si renda un qualsiasi altro servigio a qualcuno, glielo si fa in quanto amico: tuttavia, si pensa di meritare di ricevere altrettanto o di più, come se non si fosse fatto un dono ma un prestito; […].  
Chi può, dunque, deve contraccambiare il valore di ciò che ha ricevuto (non dobbiamo, infatti, farci uno amico contro la sua volontà; quindi, bisogna comportarsi come se ci si fosse sbagliati all’inizio e si fosse ricevuto del bene da chi non si sarebbe dovuto riceverlo, perché non era nostro amico né uno che lo facesse per il solo gusto di donare; bisognerà, quindi, ripagare colui che ci ha beneficati, come se ci fosse stato un patto esplicito). E l’accordo dovrebbe consistere nell’impegno di contraccambiare se si può: d’altra parte, neppure il benefattore lo esigerebbe, se l’altro non può. Cosicché, se è possibile, bisogna contraccambiare. Fin dal principio, però, bisogna badar bene alla persona da cui si riceve un beneficio ed a quali condizioni, per sottostarvi o rifiutarle."

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VI
  

   Per noi fortunati il periodo natalizio è sempre pieno di regali da fare o da ricevere. Questo come altri momenti che scandiscono le stagioni della vita ci ricordano di regalare qualcosa o di essere pronti all’arrivo di una piacevole sorpresa.
   In entrambi i casi spesso si tratta di dare o di ricevere qualcosa che non racchiude nella sua utilità il significato del dono.
Donare, a differenza di dare, ha una portata più ampia; una ricchezza che se coltivata porterà alla creazione di un movimento che lega il donatore al donatario.

Un contributo fondamentale a quello che Caillé chiamerà il terzo paradigma è ad opera di Godbout ne “Lo spirito del dono”. Entrambi gli studiosi attraverso le loro ricerche portano alla luce l’esistenza di un terzo sistema per la circolazione di beni e servizi, una terza via alternativa allo stato e al mercato, intermedia tra la retribuzione e lo scambio.
Se era evidente che questa terza via valesse nelle civiltà arcaiche, come mostrato dagli studi classici di Mauss, Levi-Strauss ed altri filosofi, il merito di Godbout è quello di averne rilevato i tratti nella società moderna, capitalistica ed utilitarista.

   Come Godbout stesso dimostra, portare alla consapevolezza l’esistenza di questo terzo sistema che già agisce nella nostra società è importante per rivalutare alcuni dogmi negativi della stessa, quali la naturalità dell’uomo come soggetto economico, il mito del profitto e l’egoismo come spinta alla base di ogni rapporto sociale.

Per intendere come questo sia possibile e cogliere l’essenza del dono, dovremo distinguere che nel volgare dare, donare, elemosinare ed altri termini vengono usati indifferentemente per indicare un atto di carità, ma noi ci appropriamo di alcune sfumature fondamentali da utilizzare al fine di cogliere a fondo i tratti distintivi del dono.

   In particolare la differenza tra elemosinare e donare rende conto di una importante diversità.
L’elemosina infatti, trova la sua messa in atto nel binomio dare-ricevere nel quale spesso il movente è la disuguaglianza economica o sociale, causa di un disagio a cui si cerca di sopperire. Pertanto lo spazio dell’elemosina è tutto definito all’interno della generosità (propriamente agape) e si conclude nell’atto stesso di dare.

   Il dono piuttosto è articolato in un movimento più ampio che include la triade “dare-ricevere-ricambiare”, messa a fuoco dall’antropologo francese Mauss nel famoso “Saggio sul dono” (1925). Mauss attraverso i suoi studi rende nota che nello spazio del dono entrano a far parte sia il legame che la reciprocità.
   Una reciprocità implicita che non ha pretesa di uguaglianza e per questo non snatura il dono della sua gratuita, focalizzando la possibilità di spezzare generosità e disinteresse, riuscendo a non contrapporre un fine alla gratuità, linfa del dono.

   Noi pervasi da un sistema capitalistico onnipresente, per salvarlo a questo e conservane la gratuità necessaria ci sentiamo obbligati a rifuggire la possibilità che possa esistere nesso tra un fine e il dono e quasi proviamo ripugnanza ad accostare le due cose.
Non riusciamo che a immaginare il dono puro, intriso di un amore ideale fuori da qualsiasi sistema e relazione sociale.
Ma poiché il dono non è mai ricompensa ad un merito o ad uno sforzo, la gratuità è e resta dominate, e con i giusti distinguo ci permette di trovare una valenza sociale che inconsapevolmente spesso sperimentiamo.

   Lo scambio a differenza del dono infatti, è inserito in una logica di tipo mercantile. Gode di un’agevole possibilità di exit, cioè la possibilità di uscire dal rapporto sociale nel momento in cui non si è più soddisfatti, di solito attraverso il pagamento(1). Il pagamento rientra proprio nella necessità di appagare il gap che si crea tra i soggetti, estinguendo immediatamente qualsiasi forma di debito.
Al contrario, attraverso il dono è come se noi stessi ci obbligassimo liberamente a ricambiare.

   La mancanza di pretesa riguardo a qualsiasi forma di garanzia e di modi e di tempi ci rassicura che la reciprocità non lo renda uno scambio mercantile, ma lo inserisca nel registro della filia, dell’amore scambievole.
Inoltre il più delle volte il dono ha un valore utile quasi nullo e pertanto non è altro che mediatore simbolico, un segno. Si pensi al valore aggiunto di una rosa o di un dono personalmente creato a discapito del valore di mercato.

   Il dono può naturalmente non essere accettato o ricambiato, o può essere ricambiato nelle possibilità e nei tempi che non dipendo affatto dal donatore. Questo sottolinea l’importanza del saper ricevere all’interno della triade, che matura nella capacità di saper attendere e nell’esser fiduciosi dell’altro, al tal proposito basti pensare l’importanza della fiducia in economia e nei sistemi finanziari che meriterebbero un discorso a parte.

   Proseguendo a sua volta, chi ha ricevuto tende a mettersi nella condizione di ricambiare donando anch’esso, cercando di ricambiare in misura maggiore, ricreando in modo invertito la disuguaglianza tra donatore e donatario.
Di questa disuguaglianza si ciba il legame che il dono crea, anzi il dono stesso diventa il legame.

   “Ma mentre il dono instaura e alimenta un legame sociale libero, il mercato libera tirandoci fuori dal legame sociale […] generando così l’individuo moderno, senza legame, ma pieno di diritti e di beni” (1).
Non è nei miei intenti demonizzare la libertà mercantile che ci permette, quando occorresse, di << badar bene alla persona da cui si riceve un beneficio ed a quali condizioni, per sottostarvi o rifiutarle >>(3).

   Inevitabilmente emerge la necessità di ritrovare una maggiore consapevolezza del dono, di ricreare una virtù del dono che si rifletta sulle altre sfere della società; creando una consapevolezza nuova, attraverso un’attesa che sia fiduciosa per rinnovate e dovute ragioni, attraverso la speranza. D’altra parte qualcosa l’abbiamo già ricevuta quando eravamo bambini, completamente affidati a chi ci circondava e gratuitamente, senza che avessimo merito alcuno, ci donava le sue attenzioni.(2)
Questo ci invita ad avere fiducia che qualcosa che vada oltre i nostri meriti possa ancora attenderci, nel natale.



Gabriele Pergola


(1): cfr. “Lo spirito del dono”, J. T. Godbout (con A. Caillé).
(2): cfr. “La stella dei Magi”, G. Savagnone, Elledici.
(3): cfr. “Etica nicomachea”, libro VIII, Aristotele.
[Leggi...]
"Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottar con la forza, perchè almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? [...]- Se avete le braccia in catene, perchè inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui nè i tiranni nè la fortuna, arbitri d'ogni cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poichè non potete opprimerli, mentre vivono, co' pugnali, opprimeteli almeno con l'obbrobrio per tutti i secoli futuri."
"Ultime Lettere di Jacopo Ortis" - Ugo Foscolo

Ugo Foscolo scrive le Ultime Lettere di Jacopo Ortis nei primi anni dell'800. Il suo riferimento polemico sono i dominatori stranieri e dispotici dell'Italia divisa, tanto gli Austriaci quanto i Francesi. Oggi, la situazione in apparenza sembra essere tutt'altra. L'Italia non (dovrebbe) più essere un paese diviso; nè tantomeno si dovrebbe più poter parlare di dispotismo. Questa citazione potrebbe apparire dunque anacronistica.
Non lo è.

Cortei. Referendum. Scioperi. Manifestazioni.
Qualsiasi forma di espressione del dissenso sembra non scalfire minimamente la pertinacia del potere nel raggiungere gli obiettivi che si è imposto e che, malgrado tutto e tutti, ha imposto alla nazione. Si potrebbe pensare alla riforma Gelmini, che sembra dirigersi inesorabilmente verso una definitiva approvazione, malgrado parallelamente e all'opposto la protesta divenga sempre più dura e generalizzata ogni giorno che passi.
Ma non si tratta solo di questo.
Inceneritori. Nucleare. Acqua pubblica. Esclusione dei condannati dal Parlamento e introduzione della preferenza diretta in sede elettorale. Tematiche vitali su cui il popolo si è espresso, a volte con un vero e proprio referendum, tanto chiaramente quanto invano. Negli ultimi anni abbiamo avuto un fior fiore di esempi altamente indicativi del distacco crescente tra gli eletti e gli elettori.

Nè si tratta solo della nostra Nazione. Potrei citarvi il trattato di Lisbona - in Irlanda, dato che il risultato del primo referendum non era gradito all'UE, si è pensato bene di ripeterlo a pochi mesi di distanza (?!). Potrei ricordarvi che lo stesso organismo esecutivo dell'UE - la Commissione - non viene eletta direttamente da noi cittadini membri. Ma scrivere più di questi pochi cenni sarebbe ridondante e mi porterebbe fuori tema - pertanto spero che vi bastino; se così non è, ciascun lettore potrà, volendo, approfondire da sè.
Insomma, la situazione italiana ed europea oggi non si presenta rosea, per chi avesse la velleità di esprimere in modo costruttivo il proprio dissenso nei confronti dell'ordine costituito. Che valore hanno parole come "senso civico" in un mondo che sembra spingerci sempre più ad occuparci unicamente della nostra piccola sfera privata? E ammesso che ce l'abbiano ancora, un valore, come dare ad esse la necessaria forza d'impatto per incidere sulla realtà concreta, dato che nè il numero dei manifestanti nè la giustezza della causa nè l'intensità dei differenti modi di esprimere il dissenso sembrano poter provocare alcun effetto?

Foscolo, che scrisse in tempi di certo non più facili dei nostri, ci dà una risposta attualissima. Ciò che malgrado tutto, malgrado il potere dei "coltelli" in mano a despoti e tiranni e l'onnipervasiva resistenza della "fortuna" e delle contingenze storiche non può essere soggiogato, è la forza liberatrice della scrittura.
Non solo la scrittura è capace, in quanto espressione artistica, di dare eternità tramite la perfezione della forma ai valori etici alla base di qualsiasi civiltà degna di essere.
La scrittura è anche, e più radicalmente ancora, la forza del pensiero espresso. Un pensiero che deve essere tanto più libero quanto più le circostanze esterne sembrano critiche. Perchè nessun potere e nessun tiranno può impedirci di pensare diversamente. Solo ciascuno di noi può "inceppare da sè stesso il proprio intelletto" - e proprio rassegnandosi, lasciandosi vincere dall'impotenza o peggio ancora dalla pigrizia e dal comodismo, o dalla paura dell'incomprensione altrui.
L'abitudine e il coraggio di pensare rendono profondamente, e irrevocabilmente, liberi. Qualunque sia il peso delle imposizioni esterne. E un pensiero libero può diventare tanto più forte nella comunicazione agli altri e ai posteri, nell'espressione scritta, o orale. Un pensiero libero può a sua volta liberare chi ci circonda, purchè sia figlio della verità, principale e perenne nemica dell'interesse egoistico dei tiranni di ieri e di oggi. 

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Decrescere per crescere:la filosofia della Decrescita e la necessità di un nuovo paradigma economico

« Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista. »
(Kenneth Boulding, filosofo, economista e poeta statunitense morto nel 1993)

Viviamo in un mondo che,contrariamente a quanto pensiamo o almeno speriamo, non è gestito in un modo molto saggio e responsabile. Questa situazione purtroppo si verifica spesso,o forse sempre,da quando l’uomo è sulla terra quindi fin qui nulla di nuovo. Ciò che invece ogni volta si rinnova sono i modi particolari in cui questa,chiamiamola “follia” in accordo con la citazione soprastante,si concretizza.

Nella nostra epoca questa “follia”,in un campo che da sempre è uno dei suoi ambienti preferiti,cioè il sistema economico,ha preso appunto una forma che nella frase di Boulding è definita come “crescita esponenziale”.E’ stato utilizzato questo termine per dire fondamentalmente che una grande follia della nostra epoca consiste in pratica nel fatto che tendiamo ad accrescere sempre di più il numero degli oggetti da produrre e da possedere e a diminuire il loro tempo di durata, pratica che è stata giustamente rappresentata all’interno dei significati del termine “consumismo”. E tutto questo in un mondo che invece non può,per limiti fisici,sostenere un tale consumo né garantirlo a tutti i suoi abitanti.

Dati questi presupposti,ne consegue che continuare a perpetrare questo stile di vita è una follia perché comporta un grave pericolo per la sopravvivenza del pianeta e di tutti i suoi abitanti,quindi anche di noi umani, e che si tradurrà inevitabilmente in un futuro di autodistruzione. E visto che mantenerlo comporta,già nel presente,rapporti sociali basati su disparità enormi,appare evidente come sia anche uno stile di vita assolutamente immorale.
Contro questo paradigma di vita basato sulla “crescita” si è schierata una filosofia di vita che ha preso il nome di “de-crescita” e conoscerla è fondamentale se vogliamo studiare un modo possibile per uscire da questo meccanismo autodistruttivo.
Il termine ha come padri fondatori la scuola di pensiero dell’associazione Club di Roma e intellettuali come il rumeno Nicholas Georgescu-Roegen e il francese Serge Latouche. In Italia oggi la filosofia della Decrescita è sostenuta e diffusa da un discreto numero di gruppi,associazioni e pensatori dei quali uno di questi è Maurizio Pallante.
Oltre all’evidenziare l’insostenibilità a lunga durata del sistema economico consumista dovuta,come si diceva sopra,ai limiti strutturali del pianeta,la filosofia decrescista contrasta fortemente la tendenza a valutare il benessere della popolazione non in base alla verifica di un’esistenza effettiva di tale benessere ma in base all’indice di produzione che tale popolazione raggiunge,ovvero il Prodotto Interno Lordo,meglio noto nella sua forma abbreviata “PIL”.
Tale fattore non è infatti adatto allo scopo in quanto considera unicamente l’aumento delle merci prodotte e non dei beni:il problema nasce dal fatto che ad una merce non corrisponde necessariamente un bene e un bene non è necessariamente una merce .
I beni derivanti da buone relazioni sociali,da relazioni affettive,ecc. non possono essere acquistati,dunque non sono merci. Dunque il loro incremento è ignorato dal fattore PIL proprio perché quest’ultimo valuta unicamente l’incremento di merci. E dunque,ecco perché tale fattore non è adatto a valutare quale sia il reale livello di benessere di una popolazione. Come rileva Pallante nel suo libro La felicità sostenibile, “Se rimaniamo imbottigliati nel traffico,bruciamo litri di carburante(accrescendo il PIL!) ma non passiamo ore piacevoli”: è un ottimo esempio di come per rilevare un fattore (in questo caso il benessere delle persone) si utilizza un rilevatore inadatto (il PIL).
Appare chiaro quindi come la filosofia della Decrescita abbia come obiettivo quello di restituire all’umano la precedenza del raggiungimento della felicità su quella della possessione della merce.

Ma non è finita qui,perché all’attuale sistema di crescita produttiva ed economica è legato un altro grave problema che la filosofia della Decrescita evidenzia in tutta la sua gravità: il peso dell’impatto ambientale,ovvero il prezzo da pagare per uno stile di vita basato sul consumo continuo e in crescita esponenziale.
Invasione dei rifiuti,effetto serra,inquinamento atmosferico,esaurimento delle risorse,sono tutte tematiche note ormai un po’ a tutti; un po’ meno lo è la consapevolezza reale sul fatto che tantissime nostre azioni quotidiane comportano l’accrescimento di questi problemi. Attraverso gli esempi seguenti potremo farci un’idea di quanto difficilmente ci interroghiamo circa le conseguenze dei nostri gesti anche più banali e di quali siano i rimedi proposti dalla filosofia della Decrescita e perché.
Tantissimi cibi che consumiamo anche giornalmente comportano una serie di rifiuti superflui dei quali forse nemmeno ci accorgiamo. Pensiamo ad esempio ad un vasetto di yogurt comprato al supermercato. Oltre al contenitore in plastica aggiungiamo la copertura in alluminio e la carta utilizzata per la confezione:ben tre tipi diversi di rifiuti e cioè plastica,alluminio e carta. Producendo lo yogurt in casa,cosa assolutamente possibile e per niente complicata,la quantità di rifiuti si riduce a zero perché avremo soltanto un contenitore di vetro che riutilizzeremo all’infinito. Quindi meno risorse utilizzate e meno rifiuti da smaltire ovvero minore impatto ambientale. Lo stesso vale per le posate usa e getta in plastica che, date le caratteristiche del materiale di cui sono fatte,rimangono nell’ambiente per decine di anni.

Abbiamo trovato una delle parole chiave della Decrescita: riutilizzo. Non ce ne accorgiamo ma buttiamo via un sacco di oggetti senza chiederci se potessero esserci ancora utili: il cellulare perché non è più di moda anche se funziona perfettamente,idem il vestito ancora in ottime condizioni ma che non sta più agli standard estetici attuali o ancora la televisione perché siamo troppo pigri per portarla a riparare anche se il danno è rimediabile perché ci viene più facile comprarne una nuova. In pratica il consumismo ci chiede di utilizzare gli utensili non secondo il criterio di utilità ed efficienza ma secondo il criterio di mercato che è un criterio di usa e getta il più presto possibile per poter comprare ancora; la Decrescita denuncia tutto questo come una trappola subdola invitandoci a puntare sulla durata e sull’efficienza reali degli oggetti.

Vediamo ora alcuni esempi di gestione irresponsabile delle risorse. Entriamo da Mc Donald’s o Burger King e prendiamo del cibo. Pensiamo mai al fatto che i contenitori di questo cibo- la confezione in cartone del panino o delle crocchette di pollo,il contenitore della bibita e gli involucri vari- sono tutti rifiuti che a) non sono adatti al riciclo b) sono costituiti per la maggior parte di carta che non venendo in questo caso riciclata deve essere prodotta con una frequenza e un dispendio di risorse molto più grandi? E che la fonte da cui si ottiene è costituita dagli alberi,fondamentali per il ciclo di ossigenazione del pianeta?
Oppure,perché comprare cibo coltivabile anche in Italia dalla Cina o dal Brasile visto che i trasporti necessari per farli arrivare negli scaffali dei nostri supermercati richiederanno un dispendio di carburante molto maggiore di quello che servirebbe per una coltura locale?
Rifiuti ridotti al minimo e agricoltura locale sono quindi altre due parole chiave della Decrescita.

E’ facile immaginare alcune reazioni di fronte a tutto questo: “ma siamo pazzi?” ,“io non ho mica il tempo per autoprodurmi il cibo a casa!” , “ma vogliamo tornare all’età della pietra?”, “i soliti estremismi da ecologista” , eccetera eccetera . Seppur comprensibili,queste reazioni risultano essere infondate. Nulla infatti è più lontano dalla filosofia della Decrescita dell’essere contrari alla tecnologia e alle utilità che questa comporta né tantomeno a creare masochistiche complicazioni alle nostre già impegnative vite da esseri umani. Alla tecnologia si chiede di operare realmente per garantire il benessere del pianeta. E il recuperare alcune pratiche come quelle della produzione in casa di alcuni cibi o utensili potrà forse vederci impacciati ad un primo approccio ma in realtà tornerà ampiamente a nostro vantaggio,sia in termini economici che in termini di crescita personale in quanto ci permetterà di sviluppare un’abilità umana fondamentale,la trasformazione della materia al fine di ottenere nuovi oggetti. Dovrebbe risultare quindi ovvio che la riduzione dei consumi,nell’ottica dei decrescisti,è ritenuta necessaria per l’aumento-o forse sarebbe meglio dire per il raggiungimento- del benessere. Insomma,consumare meno per vivere meglio,decrescere per crescere è l’assunto di base di un sistema di pensiero che,preoccupato per l’andamento del mondo, cerca di trovare una direzione che sia veramente a misura di pianeta Terra.


Pietro Lo Re
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Le riflessioni connesse a Dio sono tra quelle con cui ognuno si è confrontato e si confronta. Il contributo che i filosofi hanno apportato lungo la storia è notevole e indubbiamente in ognuno sono seminate scaglie di verità. Spesso il compito del lettore è quello di ricostruire un’immagine non più integra.


Feuerbach è tra quei pensatori che ha contribuito special modo attraverso la rivisitazione del suo pensiero operata da Marx. Ci permette di dispiegare la ricerca provando e “riprovando” galileianamente (1) tesi e argomentazioni.



“Tu credi che l'amore sia un attributo di Dio perché tu stesso ami, credi che Dio sia un essere sapiente e buono perché consideri bontà e intelligenza le migliori tue qualità. […] l'esistenza di Dio, anche la fede nell'esistenza di un qualsiasi dio è un antropomorfismo, una proiezione assolutamente umana.
L'essenza del cristianesimo, Feuerbach

Il brano riesce ad essere emblematico del pensiero di Feuerbach, mettendo a fuoco il nocciolo della sua filosofia materialista, che Dio non esiste se non come illusione della coscienza e del pensiero umano, che proietta in esso i propri attributi.

Il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione; l’oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l’uomo dipende, e si sente dipendente, non è per altro, originariamente, che la natura.
L’essenza della religione, Feuerbach

E’ bene fin da subito onde evitare un facile slittamento di binari, distinguere il “problema dell’esistenza di Dio” e il “problema sulle qualità di Dio”. Il primo problema naturalmente fa da substrato al secondo, seppur necessariamente emergano forti intersezioni tra i due.


Feuerbach prende una posizione netta riguardo a entrambi ponendosi nella posizione di chi nega l’esistenza di Dio. Non è Dio ad aver creato l’uomo bensì l’uomo ad aver creato Dio, il quale è un prodotto della coscienza umana e le qualità che a questo attribuiamo sono proiezioni di attributi umani resi perfetti. Focalizzato questo Feuerbach si chiederà il perché nasca l’idea di Dio soffermandosi su diverse analisi (distinzione individuo-specie, opposizione volere-potere, dipendenza di fronte alla natura).

Portato spesso a vessillo del “dover morale” di essere ateo, il pensiero di Feuerbach mostra però vizi non indifferenti.

La critica fondamentale che in tanti hanno mosso è di carattere metodologico che inficia e svuota le sue argomentazioni.
Feuerbach argomenta muovendo un’analisi di 
tipo psicologico che non confuta le tesi che la religione porta a suo favore ma cerca di minarla nelle fondamenta, commettendo però l’errore di screditare la possibilità che ha l’uomo di approcciarsi a Dio senza essere succube del carattere totalizzante dei suoi bisogni.
Quanto segue cecherà di mettere in luce quanto questo vizio fa perdere al discorso ogni valenza sul piano teoretico.


Ipotizziamo che sia veritiera la tesi feuerbacchiana per la quale è l’uomo a crearsi un Dio con tutte qualità umane. Così posto si dispiegano due scenari possibili:

   Il primo nel quale Dio effettivamente non esiste e non rimane altro che quanto detto da Feuerbach, cioè che Dio è solo il prodotto dell’uomo.

   Il secondo nel quale Dio effettivamente esiste e continua ad essere vera la tesi di Feuerbach, che l’uomo si crea attraverso la sua coscienza un Dio e gli attribuisce determinate qualità.

Che entrambi gli scenari siano concepibili senza contraddizioni logiche fa emergere il vizio di fondo che permea le argomentazioni di Feuerbach.


Il fatale inghippo nasce dalla sottaciuta ma implicita condizione necessaria per cui, riguardo a Dio è vero che un bisogno crea l’oggetto del desiderato, intaccandone l’ontologia.
Ma esplicitata, risulta evidente quanto accettare una simile condizione porti inesorabilmente a situazioni inconcepibili.

In ogni uomo esiste ed è direttamente percepibile la necessità di mangiare, la fame.
Secondo il 
modus agendi feuerbacchiano dovremmo sostenere che non c’è possibilità che esista del cibo perché sarebbe solamente frutto della nostra immaginazione, un miraggio, condizionato dal bisogno impellente di mangiare.
L’esempio mette chiaramente in luce come 
l’esistere non possa dipendere dai bisogni umani
Ragionevolmente si potrebbe sostenere che il mangiare da qualche parte possa –non debba- esistere, e mossi da questa possibilità intraprendere una ricerca.

Inoltre se è innegabile che esperire Dio è ben più difficile che esperire una persona, mai nessun innamorato ha pensato che l’esistenza del soggetto del proprio amore potesse dipendere dall’amore stesso che egli provava o dal bisogno che aveva di quella persona.
Chiaramente l’esempio non vuole avere carattere probativo ma aiuta a cogliere da diverse prospettive le contraddizioni ontologiche cui porta un metodo simile.

Altresì potremmo adoperare lo stesso metodo per ogni argomentazione che vuole sostenere una tesi riguardante l’uomo.
Le stesse tesi di Feuerbach potrebbero così essere soggette allo stesso trattamento.
Nessuno vieta di pensare che l’avversione di Feuerbach sia una pretesa d’indipendenza mossa dall’esigenza di sentirsi autonomi e autosufficienti, basti pensare alla nascita del peccato originale nella Bibbia per capire quanto arcaico e insito nella natura umana sia questo desiderio (a prescindere dalla propria aderenza al testo sacro è largamente condiviso il suo valore 
esistenziale). 
Ma non penso che Feuerbach si compiacerebbe se invece di giudicare le sue ragioni giudicassimo solamente il contesto da cui scaturiscono.

Naturalmente un discorso di questo genere non confuta le tesi di Feuerbach, come le tesi di Feuerbach non minano in alcun modo la possibilità di creare un discorso 
ragionevole su Dio.

Sintetizzando quanto detto fin ora:
  •  Le tesi di Feuerbach potrebbero valere anche nel caso in cui Dio esista.
  •  Il bisogno di qualcosa non può dirci niente di certo riguardo l’esistenza dell’oggetto desiderato, né tanto meno sulle qualità di questo.

Questo non dimostra che Dio esista, ma che questo modo di procedere non ci dice assolutamente niente riguardo l’esistenza o la non esistenza di Dio.

E’ comunque doveroso dover riconoscere al discorso sostenuto da Feuerbach (e da Marx che adopera lo stesso metodo) la capacità di metterci in guardia dal correre un rischio reale ma da cui possiamo preservarci. Proprio Feuerbach ci testimonia la possibilità di non essere necessariamente vincolati dai nostri bisogni e ha fiducia nella capacità di non essere succubi di questi.
Resta quindi il dovere di 
onestà intellettuale cui ci richiamano queste tesi, non essere avventati e superficiali come purtroppo oggi accade proprio nei discorsi di tanti credenti nei quali la fede e il rapporto con la religione più in generale è ormai cancrenizzato nell’abitudine e spesso ha perso la capacità di cogliere quanto c’è di rivoluzionario e di nuovo rispetto al modo di pensare del “vecchio uomo”.

Fa riflettere che la cosa più istintiva è quella di pensare che se si manifesta in me un bisogno probabilmente – ma non necessariamente - possa esistere qualcosa che lo soddisfi, sarà poi la mia ricerca a confermarmi o smentirmi.

Se oggi accade il contrario, la ratio di questo timore va ricercata tra ragioni dispiegate lungo la storia per le quali la religione è vista nel suo essere totalizzante come qualcosa di totalitario che al contrario di liberare l’uomo lo vincola a dei precetti.
Schiava di una “morale della legge” che non ha trovato la sua evoluzione in una “
morale della virtù” e del piacere.
In una logica nella quale i legami sono vincoli e non ponti per una maggiore consapevolezza, responsabilità e inevitabilmente libertà.



(1): Il riprovare galileiano ha senso letterale di “rigettare”, “scartare”. Questo gli ha fatto spesso attribuire il un carattere epistemologico pre-popperiano.







Gabriele Pergola
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