Individuo sì, individuo no

By Aaron Allegra on 12/03/2009


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Mentre in Italia l'attenzione di molti è focalizzata sul dibattito riguardo la pillola abortiva RU486, come se fosse qualcosa di più che una prassi medica come tante per l'interruzione della gravidanza e consentirne o vietarne l'uso potesse rivelarsi determinante per la soluzione della questione sull'aborto (che, almeno per lo stato italiano, è stata invece già ampiamente risolta dalla legge 194/78), nel mondo accadono casi che dovrebbero farci riflettere criticamente sui presupposti in base ai quali presumiamo di poter distinguere nettamente ciò che è umano e ciò che non lo è, di poter tracciare una sicura linea di demarcazione tra vita autocosciente investita di diritti e mera esistenza biologica che, essendo al di fuori di qualsiasi tutela legale, può essere impunemente rimossa.

Il 9 settembre a Gorleston, Norfolk, Sarah Capewell ha visto morire suo figlio, dato alla luce il quinto giorno della ventunesima settimana di gravidanza. In Gran Bretagna la terapia intensiva per i nati prematuri è prevista a partire dalla ventiduesima settimana. Questo perchè, come i medici hanno risposto alle richieste della madre per le cure necessarie alla sopravvivenza del figlio, le probabilità di sopravvivenza per chi nasce così prematuramente sono molto basse ( per quelli nati durante la ventitreesima settimana si aggirano intorno al 16% ). E perchè a quanto sembra fino al raggiungimento della ventiduesima settimana (appena quarantott'ore dopo) di sviluppo la legge avrebbe definito suo figlio un feto, non un neonato. E ai feti non sono garantiti diritti giuridici, quindi neppure quello alle cure necessarie per avere una chance di sopravvivere.
La vicenda è talmente forte da sollevare le nostre perplessità riguardo l'opportunità di pubblicare un articolo al riguardo. Ha però la caratteristica di evidenziare con forza drammatica l'assoluta inadeguatezza della nostra mente a deliberare su temi come la vita e la morte, temi che sono tanto fondamentali per il nostro essere uomini quanto evanescenti. Sollecitare la discussione partendo da simili fatti, fatti scandalosi e difficili da digerire, può però porre sotto gli occhi di tutti l'urgenza con cui dovremmo tornare a interrogarci su simili questioni, che riguardano l'essenza di qualsiasi possibile concezione dell'uomo. Di fronte ad un caso simile appare chiaro come ogni pretesa di tracciare una separazione a priori tra vita umana e “semplici aggregati di funzioni biologiche” sia una decisione obbligatoriamente arbitraria e priva di punti di riferimento oggettivi.

Noi non sappiamo esattamente cosa sia il miracolo dell'autocoscienza, né quando accade né come. E se il possesso di diritti è legato all'autocoscienza, è chiaro che se si vuole tentare di distinguere tra un “prima” e un “dopo”, lo si fa senza conoscere ciò di cui si parla.
La coscienza, l'individualità, la percezione di sé si formano con un processo graduale, le cui tappe ci sfuggono. Sono destinate inevitabilmente a sfuggirci: l' unica maniera per conoscere uno stato di coscienza è provarlo in prima persona, e nessuno di noi sa ( o, per meglio dire, ricorda ) cosa prova un neonato, cosa sente, né men che un feto. Benchè – com'è ovvio – i neonati siano tutelati legalmente, per quanto ne sappiamo la loro coscienza individuale potrebbe diventare completamente formata solo più avanti negli anni. Poste queste ovvie premesse ci verrebbe da dire che qualunque cosa sia di preciso la coscienza, se essa è, come sembra, strettamente connessa alla presenza di un sistema nervoso centrale, allora da quando lo stesso sistema nervoso centrale raggiunge un certo stadio si sviluppo dobbiamo riconoscere alla creatura una sia pur primitiva forma di consapevolezza. Almeno da quel momento in poi non si può più parlare di materia inerte. E' già una forma di vita che si può definire umana? Chiaramente dal punto di vista delle capacità cerebrali, dal punto di vista della capacità di ragionamento e di una percezione di sé completamente sviluppata, no – ma, come abbiamo già detto, probabilmente non c'è un unico punto di svolta in cui una generica forma di coscienza si trasforma in coscienza umana, ma una crescita graduale.

Che il feto non si possa mai ridurre a pura e semplice materia di cui è lecito disporre a proprio piacimento ce lo suggerisce anche la genetica: dal momento della fecondazione dell'ovulo la creatura ha già un suo dna individuale – per cui, seppur dentro il corpo della madre e da esso dipendente, è già un organismo a sé stante. E, pur senza voler recuperare teorie di Aristotele che alla sensibilità moderna possono sembrare vetuste e inattuali, ci sentiamo di affermare che il feto è già un essere umano “in potenza”: stando alle informazioni contenute nel suo codice genetico è già come “programmato” per diventare nel corso della crescita un individuo umano in tutto e per tutto.

Concludiamo con una breve riflessione volta a chiarire il nostro punto di vita. Qualsiasi teoria formulata su basi dogmatiche religiose ha in sé la caratteristica di non poter per sua stessa natura essere applicata a chi non condivide quel credo. Ma la tutela dell'embrione umano non è una questione che veda coinvolta da una parte una mentalità religiosa e dall'altra una concezione laica della vita. E' per il principio di autodeterminazione a noi caro – e tante volte innalzato a principio fondante dello stato laico – che riteniamo che qualunque cosa si voglia considerare l'essere umano, pura esistenza materiale e biologica, unione di anima e corpo o chissà cos'altro, l'unica autorità in grado di decidere della vita e della morte di un individuo sia l'individuo stesso. E dato che, per le ragioni di cui sopra, riteniamo che non ci sia modo di tracciare un confine temporale netto che ci indichi quando la biologia si trasforma in autocoscienza, e che l'embrione sia già perlomeno un individuo “in potenza”, anche il feto e l'individuo che è o che diventerà vada protetto da chiunque voglia esercitare il diritto di vita e di morte in sua vece. Fatti salvi ovviamente i casi “di confine” in cui la sua crescita può compromettere per ragioni mediche la sopravvivenza della madre.

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