L’amicizia morale […] non si fonda su un patto esplicito, ma, sia che si faccia un dono, sia che si renda un qualsiasi altro servigio a qualcuno, glielo si fa in quanto amico: tuttavia, si pensa di meritare di ricevere altrettanto o di più, come se non si fosse fatto un dono ma un prestito; […].  
Chi può, dunque, deve contraccambiare il valore di ciò che ha ricevuto (non dobbiamo, infatti, farci uno amico contro la sua volontà; quindi, bisogna comportarsi come se ci si fosse sbagliati all’inizio e si fosse ricevuto del bene da chi non si sarebbe dovuto riceverlo, perché non era nostro amico né uno che lo facesse per il solo gusto di donare; bisognerà, quindi, ripagare colui che ci ha beneficati, come se ci fosse stato un patto esplicito). E l’accordo dovrebbe consistere nell’impegno di contraccambiare se si può: d’altra parte, neppure il benefattore lo esigerebbe, se l’altro non può. Cosicché, se è possibile, bisogna contraccambiare. Fin dal principio, però, bisogna badar bene alla persona da cui si riceve un beneficio ed a quali condizioni, per sottostarvi o rifiutarle."

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VI
  

   Per noi fortunati il periodo natalizio è sempre pieno di regali da fare o da ricevere. Questo come altri momenti che scandiscono le stagioni della vita ci ricordano di regalare qualcosa o di essere pronti all’arrivo di una piacevole sorpresa.
   In entrambi i casi spesso si tratta di dare o di ricevere qualcosa che non racchiude nella sua utilità il significato del dono.
Donare, a differenza di dare, ha una portata più ampia; una ricchezza che se coltivata porterà alla creazione di un movimento che lega il donatore al donatario.

Un contributo fondamentale a quello che Caillé chiamerà il terzo paradigma è ad opera di Godbout ne “Lo spirito del dono”. Entrambi gli studiosi attraverso le loro ricerche portano alla luce l’esistenza di un terzo sistema per la circolazione di beni e servizi, una terza via alternativa allo stato e al mercato, intermedia tra la retribuzione e lo scambio.
Se era evidente che questa terza via valesse nelle civiltà arcaiche, come mostrato dagli studi classici di Mauss, Levi-Strauss ed altri filosofi, il merito di Godbout è quello di averne rilevato i tratti nella società moderna, capitalistica ed utilitarista.

   Come Godbout stesso dimostra, portare alla consapevolezza l’esistenza di questo terzo sistema che già agisce nella nostra società è importante per rivalutare alcuni dogmi negativi della stessa, quali la naturalità dell’uomo come soggetto economico, il mito del profitto e l’egoismo come spinta alla base di ogni rapporto sociale.

Per intendere come questo sia possibile e cogliere l’essenza del dono, dovremo distinguere che nel volgare dare, donare, elemosinare ed altri termini vengono usati indifferentemente per indicare un atto di carità, ma noi ci appropriamo di alcune sfumature fondamentali da utilizzare al fine di cogliere a fondo i tratti distintivi del dono.

   In particolare la differenza tra elemosinare e donare rende conto di una importante diversità.
L’elemosina infatti, trova la sua messa in atto nel binomio dare-ricevere nel quale spesso il movente è la disuguaglianza economica o sociale, causa di un disagio a cui si cerca di sopperire. Pertanto lo spazio dell’elemosina è tutto definito all’interno della generosità (propriamente agape) e si conclude nell’atto stesso di dare.

   Il dono piuttosto è articolato in un movimento più ampio che include la triade “dare-ricevere-ricambiare”, messa a fuoco dall’antropologo francese Mauss nel famoso “Saggio sul dono” (1925). Mauss attraverso i suoi studi rende nota che nello spazio del dono entrano a far parte sia il legame che la reciprocità.
   Una reciprocità implicita che non ha pretesa di uguaglianza e per questo non snatura il dono della sua gratuita, focalizzando la possibilità di spezzare generosità e disinteresse, riuscendo a non contrapporre un fine alla gratuità, linfa del dono.

   Noi pervasi da un sistema capitalistico onnipresente, per salvarlo a questo e conservane la gratuità necessaria ci sentiamo obbligati a rifuggire la possibilità che possa esistere nesso tra un fine e il dono e quasi proviamo ripugnanza ad accostare le due cose.
Non riusciamo che a immaginare il dono puro, intriso di un amore ideale fuori da qualsiasi sistema e relazione sociale.
Ma poiché il dono non è mai ricompensa ad un merito o ad uno sforzo, la gratuità è e resta dominate, e con i giusti distinguo ci permette di trovare una valenza sociale che inconsapevolmente spesso sperimentiamo.

   Lo scambio a differenza del dono infatti, è inserito in una logica di tipo mercantile. Gode di un’agevole possibilità di exit, cioè la possibilità di uscire dal rapporto sociale nel momento in cui non si è più soddisfatti, di solito attraverso il pagamento(1). Il pagamento rientra proprio nella necessità di appagare il gap che si crea tra i soggetti, estinguendo immediatamente qualsiasi forma di debito.
Al contrario, attraverso il dono è come se noi stessi ci obbligassimo liberamente a ricambiare.

   La mancanza di pretesa riguardo a qualsiasi forma di garanzia e di modi e di tempi ci rassicura che la reciprocità non lo renda uno scambio mercantile, ma lo inserisca nel registro della filia, dell’amore scambievole.
Inoltre il più delle volte il dono ha un valore utile quasi nullo e pertanto non è altro che mediatore simbolico, un segno. Si pensi al valore aggiunto di una rosa o di un dono personalmente creato a discapito del valore di mercato.

   Il dono può naturalmente non essere accettato o ricambiato, o può essere ricambiato nelle possibilità e nei tempi che non dipendo affatto dal donatore. Questo sottolinea l’importanza del saper ricevere all’interno della triade, che matura nella capacità di saper attendere e nell’esser fiduciosi dell’altro, al tal proposito basti pensare l’importanza della fiducia in economia e nei sistemi finanziari che meriterebbero un discorso a parte.

   Proseguendo a sua volta, chi ha ricevuto tende a mettersi nella condizione di ricambiare donando anch’esso, cercando di ricambiare in misura maggiore, ricreando in modo invertito la disuguaglianza tra donatore e donatario.
Di questa disuguaglianza si ciba il legame che il dono crea, anzi il dono stesso diventa il legame.

   “Ma mentre il dono instaura e alimenta un legame sociale libero, il mercato libera tirandoci fuori dal legame sociale […] generando così l’individuo moderno, senza legame, ma pieno di diritti e di beni” (1).
Non è nei miei intenti demonizzare la libertà mercantile che ci permette, quando occorresse, di << badar bene alla persona da cui si riceve un beneficio ed a quali condizioni, per sottostarvi o rifiutarle >>(3).

   Inevitabilmente emerge la necessità di ritrovare una maggiore consapevolezza del dono, di ricreare una virtù del dono che si rifletta sulle altre sfere della società; creando una consapevolezza nuova, attraverso un’attesa che sia fiduciosa per rinnovate e dovute ragioni, attraverso la speranza. D’altra parte qualcosa l’abbiamo già ricevuta quando eravamo bambini, completamente affidati a chi ci circondava e gratuitamente, senza che avessimo merito alcuno, ci donava le sue attenzioni.(2)
Questo ci invita ad avere fiducia che qualcosa che vada oltre i nostri meriti possa ancora attenderci, nel natale.



Gabriele Pergola


(1): cfr. “Lo spirito del dono”, J. T. Godbout (con A. Caillé).
(2): cfr. “La stella dei Magi”, G. Savagnone, Elledici.
(3): cfr. “Etica nicomachea”, libro VIII, Aristotele.
[Leggi...]
"Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottar con la forza, perchè almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? [...]- Se avete le braccia in catene, perchè inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui nè i tiranni nè la fortuna, arbitri d'ogni cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poichè non potete opprimerli, mentre vivono, co' pugnali, opprimeteli almeno con l'obbrobrio per tutti i secoli futuri."
"Ultime Lettere di Jacopo Ortis" - Ugo Foscolo

Ugo Foscolo scrive le Ultime Lettere di Jacopo Ortis nei primi anni dell'800. Il suo riferimento polemico sono i dominatori stranieri e dispotici dell'Italia divisa, tanto gli Austriaci quanto i Francesi. Oggi, la situazione in apparenza sembra essere tutt'altra. L'Italia non (dovrebbe) più essere un paese diviso; nè tantomeno si dovrebbe più poter parlare di dispotismo. Questa citazione potrebbe apparire dunque anacronistica.
Non lo è.

Cortei. Referendum. Scioperi. Manifestazioni.
Qualsiasi forma di espressione del dissenso sembra non scalfire minimamente la pertinacia del potere nel raggiungere gli obiettivi che si è imposto e che, malgrado tutto e tutti, ha imposto alla nazione. Si potrebbe pensare alla riforma Gelmini, che sembra dirigersi inesorabilmente verso una definitiva approvazione, malgrado parallelamente e all'opposto la protesta divenga sempre più dura e generalizzata ogni giorno che passi.
Ma non si tratta solo di questo.
Inceneritori. Nucleare. Acqua pubblica. Esclusione dei condannati dal Parlamento e introduzione della preferenza diretta in sede elettorale. Tematiche vitali su cui il popolo si è espresso, a volte con un vero e proprio referendum, tanto chiaramente quanto invano. Negli ultimi anni abbiamo avuto un fior fiore di esempi altamente indicativi del distacco crescente tra gli eletti e gli elettori.

Nè si tratta solo della nostra Nazione. Potrei citarvi il trattato di Lisbona - in Irlanda, dato che il risultato del primo referendum non era gradito all'UE, si è pensato bene di ripeterlo a pochi mesi di distanza (?!). Potrei ricordarvi che lo stesso organismo esecutivo dell'UE - la Commissione - non viene eletta direttamente da noi cittadini membri. Ma scrivere più di questi pochi cenni sarebbe ridondante e mi porterebbe fuori tema - pertanto spero che vi bastino; se così non è, ciascun lettore potrà, volendo, approfondire da sè.
Insomma, la situazione italiana ed europea oggi non si presenta rosea, per chi avesse la velleità di esprimere in modo costruttivo il proprio dissenso nei confronti dell'ordine costituito. Che valore hanno parole come "senso civico" in un mondo che sembra spingerci sempre più ad occuparci unicamente della nostra piccola sfera privata? E ammesso che ce l'abbiano ancora, un valore, come dare ad esse la necessaria forza d'impatto per incidere sulla realtà concreta, dato che nè il numero dei manifestanti nè la giustezza della causa nè l'intensità dei differenti modi di esprimere il dissenso sembrano poter provocare alcun effetto?

Foscolo, che scrisse in tempi di certo non più facili dei nostri, ci dà una risposta attualissima. Ciò che malgrado tutto, malgrado il potere dei "coltelli" in mano a despoti e tiranni e l'onnipervasiva resistenza della "fortuna" e delle contingenze storiche non può essere soggiogato, è la forza liberatrice della scrittura.
Non solo la scrittura è capace, in quanto espressione artistica, di dare eternità tramite la perfezione della forma ai valori etici alla base di qualsiasi civiltà degna di essere.
La scrittura è anche, e più radicalmente ancora, la forza del pensiero espresso. Un pensiero che deve essere tanto più libero quanto più le circostanze esterne sembrano critiche. Perchè nessun potere e nessun tiranno può impedirci di pensare diversamente. Solo ciascuno di noi può "inceppare da sè stesso il proprio intelletto" - e proprio rassegnandosi, lasciandosi vincere dall'impotenza o peggio ancora dalla pigrizia e dal comodismo, o dalla paura dell'incomprensione altrui.
L'abitudine e il coraggio di pensare rendono profondamente, e irrevocabilmente, liberi. Qualunque sia il peso delle imposizioni esterne. E un pensiero libero può diventare tanto più forte nella comunicazione agli altri e ai posteri, nell'espressione scritta, o orale. Un pensiero libero può a sua volta liberare chi ci circonda, purchè sia figlio della verità, principale e perenne nemica dell'interesse egoistico dei tiranni di ieri e di oggi. 

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Decrescere per crescere:la filosofia della Decrescita e la necessità di un nuovo paradigma economico

« Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista. »
(Kenneth Boulding, filosofo, economista e poeta statunitense morto nel 1993)

Viviamo in un mondo che,contrariamente a quanto pensiamo o almeno speriamo, non è gestito in un modo molto saggio e responsabile. Questa situazione purtroppo si verifica spesso,o forse sempre,da quando l’uomo è sulla terra quindi fin qui nulla di nuovo. Ciò che invece ogni volta si rinnova sono i modi particolari in cui questa,chiamiamola “follia” in accordo con la citazione soprastante,si concretizza.

Nella nostra epoca questa “follia”,in un campo che da sempre è uno dei suoi ambienti preferiti,cioè il sistema economico,ha preso appunto una forma che nella frase di Boulding è definita come “crescita esponenziale”.E’ stato utilizzato questo termine per dire fondamentalmente che una grande follia della nostra epoca consiste in pratica nel fatto che tendiamo ad accrescere sempre di più il numero degli oggetti da produrre e da possedere e a diminuire il loro tempo di durata, pratica che è stata giustamente rappresentata all’interno dei significati del termine “consumismo”. E tutto questo in un mondo che invece non può,per limiti fisici,sostenere un tale consumo né garantirlo a tutti i suoi abitanti.

Dati questi presupposti,ne consegue che continuare a perpetrare questo stile di vita è una follia perché comporta un grave pericolo per la sopravvivenza del pianeta e di tutti i suoi abitanti,quindi anche di noi umani, e che si tradurrà inevitabilmente in un futuro di autodistruzione. E visto che mantenerlo comporta,già nel presente,rapporti sociali basati su disparità enormi,appare evidente come sia anche uno stile di vita assolutamente immorale.
Contro questo paradigma di vita basato sulla “crescita” si è schierata una filosofia di vita che ha preso il nome di “de-crescita” e conoscerla è fondamentale se vogliamo studiare un modo possibile per uscire da questo meccanismo autodistruttivo.
Il termine ha come padri fondatori la scuola di pensiero dell’associazione Club di Roma e intellettuali come il rumeno Nicholas Georgescu-Roegen e il francese Serge Latouche. In Italia oggi la filosofia della Decrescita è sostenuta e diffusa da un discreto numero di gruppi,associazioni e pensatori dei quali uno di questi è Maurizio Pallante.
Oltre all’evidenziare l’insostenibilità a lunga durata del sistema economico consumista dovuta,come si diceva sopra,ai limiti strutturali del pianeta,la filosofia decrescista contrasta fortemente la tendenza a valutare il benessere della popolazione non in base alla verifica di un’esistenza effettiva di tale benessere ma in base all’indice di produzione che tale popolazione raggiunge,ovvero il Prodotto Interno Lordo,meglio noto nella sua forma abbreviata “PIL”.
Tale fattore non è infatti adatto allo scopo in quanto considera unicamente l’aumento delle merci prodotte e non dei beni:il problema nasce dal fatto che ad una merce non corrisponde necessariamente un bene e un bene non è necessariamente una merce .
I beni derivanti da buone relazioni sociali,da relazioni affettive,ecc. non possono essere acquistati,dunque non sono merci. Dunque il loro incremento è ignorato dal fattore PIL proprio perché quest’ultimo valuta unicamente l’incremento di merci. E dunque,ecco perché tale fattore non è adatto a valutare quale sia il reale livello di benessere di una popolazione. Come rileva Pallante nel suo libro La felicità sostenibile, “Se rimaniamo imbottigliati nel traffico,bruciamo litri di carburante(accrescendo il PIL!) ma non passiamo ore piacevoli”: è un ottimo esempio di come per rilevare un fattore (in questo caso il benessere delle persone) si utilizza un rilevatore inadatto (il PIL).
Appare chiaro quindi come la filosofia della Decrescita abbia come obiettivo quello di restituire all’umano la precedenza del raggiungimento della felicità su quella della possessione della merce.

Ma non è finita qui,perché all’attuale sistema di crescita produttiva ed economica è legato un altro grave problema che la filosofia della Decrescita evidenzia in tutta la sua gravità: il peso dell’impatto ambientale,ovvero il prezzo da pagare per uno stile di vita basato sul consumo continuo e in crescita esponenziale.
Invasione dei rifiuti,effetto serra,inquinamento atmosferico,esaurimento delle risorse,sono tutte tematiche note ormai un po’ a tutti; un po’ meno lo è la consapevolezza reale sul fatto che tantissime nostre azioni quotidiane comportano l’accrescimento di questi problemi. Attraverso gli esempi seguenti potremo farci un’idea di quanto difficilmente ci interroghiamo circa le conseguenze dei nostri gesti anche più banali e di quali siano i rimedi proposti dalla filosofia della Decrescita e perché.
Tantissimi cibi che consumiamo anche giornalmente comportano una serie di rifiuti superflui dei quali forse nemmeno ci accorgiamo. Pensiamo ad esempio ad un vasetto di yogurt comprato al supermercato. Oltre al contenitore in plastica aggiungiamo la copertura in alluminio e la carta utilizzata per la confezione:ben tre tipi diversi di rifiuti e cioè plastica,alluminio e carta. Producendo lo yogurt in casa,cosa assolutamente possibile e per niente complicata,la quantità di rifiuti si riduce a zero perché avremo soltanto un contenitore di vetro che riutilizzeremo all’infinito. Quindi meno risorse utilizzate e meno rifiuti da smaltire ovvero minore impatto ambientale. Lo stesso vale per le posate usa e getta in plastica che, date le caratteristiche del materiale di cui sono fatte,rimangono nell’ambiente per decine di anni.

Abbiamo trovato una delle parole chiave della Decrescita: riutilizzo. Non ce ne accorgiamo ma buttiamo via un sacco di oggetti senza chiederci se potessero esserci ancora utili: il cellulare perché non è più di moda anche se funziona perfettamente,idem il vestito ancora in ottime condizioni ma che non sta più agli standard estetici attuali o ancora la televisione perché siamo troppo pigri per portarla a riparare anche se il danno è rimediabile perché ci viene più facile comprarne una nuova. In pratica il consumismo ci chiede di utilizzare gli utensili non secondo il criterio di utilità ed efficienza ma secondo il criterio di mercato che è un criterio di usa e getta il più presto possibile per poter comprare ancora; la Decrescita denuncia tutto questo come una trappola subdola invitandoci a puntare sulla durata e sull’efficienza reali degli oggetti.

Vediamo ora alcuni esempi di gestione irresponsabile delle risorse. Entriamo da Mc Donald’s o Burger King e prendiamo del cibo. Pensiamo mai al fatto che i contenitori di questo cibo- la confezione in cartone del panino o delle crocchette di pollo,il contenitore della bibita e gli involucri vari- sono tutti rifiuti che a) non sono adatti al riciclo b) sono costituiti per la maggior parte di carta che non venendo in questo caso riciclata deve essere prodotta con una frequenza e un dispendio di risorse molto più grandi? E che la fonte da cui si ottiene è costituita dagli alberi,fondamentali per il ciclo di ossigenazione del pianeta?
Oppure,perché comprare cibo coltivabile anche in Italia dalla Cina o dal Brasile visto che i trasporti necessari per farli arrivare negli scaffali dei nostri supermercati richiederanno un dispendio di carburante molto maggiore di quello che servirebbe per una coltura locale?
Rifiuti ridotti al minimo e agricoltura locale sono quindi altre due parole chiave della Decrescita.

E’ facile immaginare alcune reazioni di fronte a tutto questo: “ma siamo pazzi?” ,“io non ho mica il tempo per autoprodurmi il cibo a casa!” , “ma vogliamo tornare all’età della pietra?”, “i soliti estremismi da ecologista” , eccetera eccetera . Seppur comprensibili,queste reazioni risultano essere infondate. Nulla infatti è più lontano dalla filosofia della Decrescita dell’essere contrari alla tecnologia e alle utilità che questa comporta né tantomeno a creare masochistiche complicazioni alle nostre già impegnative vite da esseri umani. Alla tecnologia si chiede di operare realmente per garantire il benessere del pianeta. E il recuperare alcune pratiche come quelle della produzione in casa di alcuni cibi o utensili potrà forse vederci impacciati ad un primo approccio ma in realtà tornerà ampiamente a nostro vantaggio,sia in termini economici che in termini di crescita personale in quanto ci permetterà di sviluppare un’abilità umana fondamentale,la trasformazione della materia al fine di ottenere nuovi oggetti. Dovrebbe risultare quindi ovvio che la riduzione dei consumi,nell’ottica dei decrescisti,è ritenuta necessaria per l’aumento-o forse sarebbe meglio dire per il raggiungimento- del benessere. Insomma,consumare meno per vivere meglio,decrescere per crescere è l’assunto di base di un sistema di pensiero che,preoccupato per l’andamento del mondo, cerca di trovare una direzione che sia veramente a misura di pianeta Terra.


Pietro Lo Re
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Le riflessioni connesse a Dio sono tra quelle con cui ognuno si è confrontato e si confronta. Il contributo che i filosofi hanno apportato lungo la storia è notevole e indubbiamente in ognuno sono seminate scaglie di verità. Spesso il compito del lettore è quello di ricostruire un’immagine non più integra.


Feuerbach è tra quei pensatori che ha contribuito special modo attraverso la rivisitazione del suo pensiero operata da Marx. Ci permette di dispiegare la ricerca provando e “riprovando” galileianamente (1) tesi e argomentazioni.



“Tu credi che l'amore sia un attributo di Dio perché tu stesso ami, credi che Dio sia un essere sapiente e buono perché consideri bontà e intelligenza le migliori tue qualità. […] l'esistenza di Dio, anche la fede nell'esistenza di un qualsiasi dio è un antropomorfismo, una proiezione assolutamente umana.
L'essenza del cristianesimo, Feuerbach

Il brano riesce ad essere emblematico del pensiero di Feuerbach, mettendo a fuoco il nocciolo della sua filosofia materialista, che Dio non esiste se non come illusione della coscienza e del pensiero umano, che proietta in esso i propri attributi.

Il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione; l’oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l’uomo dipende, e si sente dipendente, non è per altro, originariamente, che la natura.
L’essenza della religione, Feuerbach

E’ bene fin da subito onde evitare un facile slittamento di binari, distinguere il “problema dell’esistenza di Dio” e il “problema sulle qualità di Dio”. Il primo problema naturalmente fa da substrato al secondo, seppur necessariamente emergano forti intersezioni tra i due.


Feuerbach prende una posizione netta riguardo a entrambi ponendosi nella posizione di chi nega l’esistenza di Dio. Non è Dio ad aver creato l’uomo bensì l’uomo ad aver creato Dio, il quale è un prodotto della coscienza umana e le qualità che a questo attribuiamo sono proiezioni di attributi umani resi perfetti. Focalizzato questo Feuerbach si chiederà il perché nasca l’idea di Dio soffermandosi su diverse analisi (distinzione individuo-specie, opposizione volere-potere, dipendenza di fronte alla natura).

Portato spesso a vessillo del “dover morale” di essere ateo, il pensiero di Feuerbach mostra però vizi non indifferenti.

La critica fondamentale che in tanti hanno mosso è di carattere metodologico che inficia e svuota le sue argomentazioni.
Feuerbach argomenta muovendo un’analisi di 
tipo psicologico che non confuta le tesi che la religione porta a suo favore ma cerca di minarla nelle fondamenta, commettendo però l’errore di screditare la possibilità che ha l’uomo di approcciarsi a Dio senza essere succube del carattere totalizzante dei suoi bisogni.
Quanto segue cecherà di mettere in luce quanto questo vizio fa perdere al discorso ogni valenza sul piano teoretico.


Ipotizziamo che sia veritiera la tesi feuerbacchiana per la quale è l’uomo a crearsi un Dio con tutte qualità umane. Così posto si dispiegano due scenari possibili:

   Il primo nel quale Dio effettivamente non esiste e non rimane altro che quanto detto da Feuerbach, cioè che Dio è solo il prodotto dell’uomo.

   Il secondo nel quale Dio effettivamente esiste e continua ad essere vera la tesi di Feuerbach, che l’uomo si crea attraverso la sua coscienza un Dio e gli attribuisce determinate qualità.

Che entrambi gli scenari siano concepibili senza contraddizioni logiche fa emergere il vizio di fondo che permea le argomentazioni di Feuerbach.


Il fatale inghippo nasce dalla sottaciuta ma implicita condizione necessaria per cui, riguardo a Dio è vero che un bisogno crea l’oggetto del desiderato, intaccandone l’ontologia.
Ma esplicitata, risulta evidente quanto accettare una simile condizione porti inesorabilmente a situazioni inconcepibili.

In ogni uomo esiste ed è direttamente percepibile la necessità di mangiare, la fame.
Secondo il 
modus agendi feuerbacchiano dovremmo sostenere che non c’è possibilità che esista del cibo perché sarebbe solamente frutto della nostra immaginazione, un miraggio, condizionato dal bisogno impellente di mangiare.
L’esempio mette chiaramente in luce come 
l’esistere non possa dipendere dai bisogni umani
Ragionevolmente si potrebbe sostenere che il mangiare da qualche parte possa –non debba- esistere, e mossi da questa possibilità intraprendere una ricerca.

Inoltre se è innegabile che esperire Dio è ben più difficile che esperire una persona, mai nessun innamorato ha pensato che l’esistenza del soggetto del proprio amore potesse dipendere dall’amore stesso che egli provava o dal bisogno che aveva di quella persona.
Chiaramente l’esempio non vuole avere carattere probativo ma aiuta a cogliere da diverse prospettive le contraddizioni ontologiche cui porta un metodo simile.

Altresì potremmo adoperare lo stesso metodo per ogni argomentazione che vuole sostenere una tesi riguardante l’uomo.
Le stesse tesi di Feuerbach potrebbero così essere soggette allo stesso trattamento.
Nessuno vieta di pensare che l’avversione di Feuerbach sia una pretesa d’indipendenza mossa dall’esigenza di sentirsi autonomi e autosufficienti, basti pensare alla nascita del peccato originale nella Bibbia per capire quanto arcaico e insito nella natura umana sia questo desiderio (a prescindere dalla propria aderenza al testo sacro è largamente condiviso il suo valore 
esistenziale). 
Ma non penso che Feuerbach si compiacerebbe se invece di giudicare le sue ragioni giudicassimo solamente il contesto da cui scaturiscono.

Naturalmente un discorso di questo genere non confuta le tesi di Feuerbach, come le tesi di Feuerbach non minano in alcun modo la possibilità di creare un discorso 
ragionevole su Dio.

Sintetizzando quanto detto fin ora:
  •  Le tesi di Feuerbach potrebbero valere anche nel caso in cui Dio esista.
  •  Il bisogno di qualcosa non può dirci niente di certo riguardo l’esistenza dell’oggetto desiderato, né tanto meno sulle qualità di questo.

Questo non dimostra che Dio esista, ma che questo modo di procedere non ci dice assolutamente niente riguardo l’esistenza o la non esistenza di Dio.

E’ comunque doveroso dover riconoscere al discorso sostenuto da Feuerbach (e da Marx che adopera lo stesso metodo) la capacità di metterci in guardia dal correre un rischio reale ma da cui possiamo preservarci. Proprio Feuerbach ci testimonia la possibilità di non essere necessariamente vincolati dai nostri bisogni e ha fiducia nella capacità di non essere succubi di questi.
Resta quindi il dovere di 
onestà intellettuale cui ci richiamano queste tesi, non essere avventati e superficiali come purtroppo oggi accade proprio nei discorsi di tanti credenti nei quali la fede e il rapporto con la religione più in generale è ormai cancrenizzato nell’abitudine e spesso ha perso la capacità di cogliere quanto c’è di rivoluzionario e di nuovo rispetto al modo di pensare del “vecchio uomo”.

Fa riflettere che la cosa più istintiva è quella di pensare che se si manifesta in me un bisogno probabilmente – ma non necessariamente - possa esistere qualcosa che lo soddisfi, sarà poi la mia ricerca a confermarmi o smentirmi.

Se oggi accade il contrario, la ratio di questo timore va ricercata tra ragioni dispiegate lungo la storia per le quali la religione è vista nel suo essere totalizzante come qualcosa di totalitario che al contrario di liberare l’uomo lo vincola a dei precetti.
Schiava di una “morale della legge” che non ha trovato la sua evoluzione in una “
morale della virtù” e del piacere.
In una logica nella quale i legami sono vincoli e non ponti per una maggiore consapevolezza, responsabilità e inevitabilmente libertà.



(1): Il riprovare galileiano ha senso letterale di “rigettare”, “scartare”. Questo gli ha fatto spesso attribuire il un carattere epistemologico pre-popperiano.







Gabriele Pergola
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articolo inviatoci da Guglielmo Militello
 
La legge sulle intercettazioni ideata dal ministro Alfano e dall’avvocato del premier Ghedini appena passata alla camera avrà conseguenze sociali particolarmente gravi per non dire disastrose: essa non inficia soltanto l’ambito giuridico (non sarà più possibile eseguire delle intercettazioni telefoniche o mediante video se non si possiede la prova che l’indiziato stia compiendo un reato) ma anche quello giornalistico e della libera informazione ( si può parlare dei processi solo una volta che vengono pubblicate le sentenze).

Queste due immediate conseguenze di una proposta di legge “criminale” e anticostituzionale ( va contro l’articolo 21 della Costituzione che sancisce il diritto d’informazione da parte dei cittadini) meritano un’accurata analisi e un’attenta riflessione.
Con questa legge risulterà dunque impossibile svolgere indagini su soggetti particolarmente pericolosi per il Paese, a partire da tutti coloro che sono collusi con la mafia; è inutile dire come ciò indebolirà notevolmente il nostro sistema giuridico favorendo l’aumento della criminalità e lo stesso vale per i reati economici.

In altri paesi occidentali, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, è vero che non si può parlare di un processo se non a sentenza emessa, tuttavia lì la macchina giudiziaria è tre volte più veloce rispetto a quella italiana e chiaramente se ne può parlare in tempi brevi. Poiché in Italia, invece, la giustizia va particolarmente a rilento è necessario, al fine di avere un’opinione pubblica informata, fornire subito una cronaca dell’iter processuale.

In Italia si tenta di bloccare le intercettazioni fatte da magistrati – e non quelle fatte da società private- perché la magistratura, essendo organo indipendente, non è facilmente “controllabile” come avviene invece per i servizi segreti, da parte del governo.
Purtroppo nel contesto italiano sarà molto difficile opporsi a tale legge, sebbene sia necessario farlo se si tiene almeno un po’ a quell’alto concetto che prende il nome Giustizia.
[Leggi...]

Questo articolo è scritto con l’obiettivo di portare ad una domanda che vorrei rivolgere a tutti.

Facciamo finta di essere nel futuro,facciamo anche finta di parlare di un mondo ancora violento,in cui non c’è pace,e non parlo di guerre e calamità,ma di quella mancanza di senso che molti uomini avvertono da quando nascono fino alla morte. Passa il tempo e finalmente gli scienziati trovano un nuovo farmaco,qualcosa che fa grande scalpore,”la droga x” la chiamano.


Ora,si sta parlando di qualcosa di completamente nuovo,un prodotto innovativo,diverso da tutte le altre droghe. La droga x si prende una sola volta nella vita, perché una nuova dose non serve. Provoca piacere,dicono i medici,ti fa vivere in un sogno senza tempo dove non sai se si parla di eternità o di pochi secondi. Tuttavia questa droga non ti fa capire che ti trovi in un sogno,ti fornisce allucinazioni così vivide,delle quali non sospetterai mai nulla. Ti offre un tipo di piacere nuovo,non solo fisico,ma anche psichico,dove le tue emozioni,sensazioni e domande trovano pace.


Ora aggiungiamoci pure che questi brillanti scienziati trovino uno straordinario modo di allungare la vita umana,ibernando il corpo,diciamo …..per un migliaio di anni.
Non passa molto tempo che droga e ibernazione si uniscono in un progetto comune grazie al progredire della scienza,offrendoti la possibilità del “paradiso in terra”,come viene chiamato il progetto dalla pubblicità appena apparsa in televisione.

Solo in tempi moderni si è veramente dato retta a ciò che hanno da dire i tossici. Sono stati film come “Trainspotting” che hanno fatto capire che l’unica cosa che il drogato odia della sua vita sono quei momenti in cui non è sotto l’effetto della droga che prende. L’esigenza di disintossicarsi nasce dallo scarso rapporto di tempo che c’è tra la breve sensazione di piacere che ti offre la coca e il lungo tempo che impieghi a cercare la nuova dose. La droga x risolve questo problema. Ho sentito dire che il vero male della droga non è quello che ti fa ma come ti lascia dopo che te lo fa. Ma torniamo al nostro racconto.
Cerchiamo di dare un minimo di eticità a questi nostri scienziati e mettiamo che lascino a chi decide di farsi ibernare drogandosi della “x”,la libertà di scegliere se una volta trovatosi nell’eterno sogno vorrà avere la facoltà di ricordarsi che è solo tutta finzione,e quindi la libertà di prendere l’antidoto per la droga,e uscire dall’ibernazione incapaci di sopportare la menzogna. Infatti questo farmaco è proprio perfetto,a differenza delle altre droghe non dà alcuna dipendenza,ed effettivamente chi vuole può decidere di riprendere la propria vita di sempre.

Il mondo assisterà quindi ad una divisione:ci sarà chi prendendo il farmaco troverà il proprio paradiso per sempre (o comunque per moltissimo tempo),poi altri prenderanno il farmaco e magari una volta fuori non vorranno più saperne nulla,un terzo gruppo invece,probabilmente una volta fuori, vorrà di nuovo  ritornare ibernato,questa volta per sempre e senza sapere che vive nella finzione,e infine un ultimo esiguo gruppo di uomini non vorrà nemmeno mai provare tutto ciò per un proprio principio etico.

La domanda che penso ognuno si dovrebbe fare,credo sia la seguente: in quale dei quattro gruppi mi collocherei?

Un quesito che inizialmente può sembrare sciocco dato che si tratta di una storiella futuristica inventata ma che mette in rapporto due elementi che purtroppo non sono mai riuscito a veder andare d’accordo: la felicità e la verità.

Penso a Leopardi che invidia le pecore,e a molti altri autori che chiaramente ci hanno fatto capire questo:il fine ultimo dell'uomo è essere felice o arrivare alla verità? La cosa certa è che nella realtà in cui viviamo per ridere dobbiamo ignorare (a meno che non ridiamo della verità che non esiste come suggeriva Nietzsche) anche se allora si potrebbe obiettare che per ignorare,qualcosa dovevamo conoscere fin da prima. Questo è un bel problema su cui molti autori hanno riflettuto. Forse da qui però può nascere la volontà di accettare che nell'assoluto queste due entità possano coincidere. Ma questo apre un discorso troppo ampio e che si discosta dalla domanda.

Freud diceva che l’umanità ha rinunciato a molto dell’es(quella parte dell'io che contiene le spinte pulsionali .ndr) per un po’ di sicurezza …. Io penso che se per sicurezza intendiamo tutto ciò che possiamo solo vedere e toccare,allora farei certamente parte del primo gruppo di individui. 



Alberto Patella






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Estratto di un racconto scritto da un amico,Alberto Patella.Una città costruita interamente in legno è minacciata dal divampare di un terribile incendio.Un misterioso eroe,intenzionato a risolvere il problema,si reca dalla regina della città che lo mette alla prova con una riflessione sul senso ultimo degli eventi accaduti.


La regina sorrise ancor di più,con quello sguardo colmo di affetto che può esserci tra un figlio ed una madre. Cambiò lievemente posizioni sul trono e iniziò il suo discorso. – La considerazione essenziale,riguarda principalmente i meccanismi generali al cui interno siamo coinvolti-.
Dopo una brevissima pausa,dove ella si schiarì la voce debole e stanca,tutto continuò :
-Osservando il mondo,spesso si nota la sua perfetta logica,come un meccanismo ben oliato. Le emozioni di noi esseri,le liti,l’amore,l’odio,gli eventi ed in generale ogni relazione della città,sembrano incastrarsi perfettamente tra loro. Tutto segue una sua logica,termine che non deve ingannarvi dal momento che non si tratta di qualcosa che possiamo comprendere nel suo sviluppo,ma solamente percepirne la presenza. Vi parlo,o miei sudditi, di una logica astratta,che vede anche negli errori,o i più grandi colpi di scena,come ad esempio il fatto che abbia elogiato proprio ora un servo che non conoscevo,collocarsi in un disegno complessivo del quale non vediamo mai la fine,ma che percepiamo come costante e invadente. Sia che si guardi la carestia imperversare,sia che ci si perda nella contemplazione di queste splendide linee naturali-,ed indicò la colonna proprio dietro di loro,-tutto sembra rientrare in un perfetto gioco di meccanismi,come un teatro dove agli attori viene lasciata la libertà di improvvisare su una parte già scelta in precedenza.
Compreso dunque,che i ruoli già li conosciamo,possiamo conoscere anche i confini del teatro in cui essi recitano?

A te,nostro salvatore,pongo questa domanda che ti accompagnerà nel tuo cammino,e ancora altri quesiti ho per te. Dunque nelle nostre azioni c’è un disegno,ma ciò vale anche quando vedo i miei sudditi morire per la fame? O quando un nostro fratello muore per malattia,o perché scivola da qualche torre di legno,o perché un terremoto,come in lontani giorni è successo,squarcia la nostra città o infine,perché le fiamme di un incendio enorme e perenne brucia i nostri corpi? Perché anche ciò ci affligge? L’incendio è un fenomeno totalmente svincolato dal nostro agire,eppure ne paghiamo le conseguenze,chiediamoci se c’è una logica dietro tutto questo. Vi dico allora,che occorre modificare il nostro modo di vedere le cose per capire da dove è nato l’incendio,cambiare il nostro punto di vista,infatti se si vuole sconfiggere una cosa,prima bisogna comprenderne la nascita. Vi dirò quindi come quella logica astratta di cui parlavo prima,può essere applicata anche per l’incendio infernale. Se ogni evento esterno al nostro volere,esterno alla  costruzione della città,si pone in relazione con noi esseri,ecco  che tutto prende forma,relazione che va ricercata nel fine degli eventi,e non nella causa. Non intendo assolutamente affermare che il fuoco sia venuto per portarci benefici per chissà quale motivo divino e imperscrutabile,esso ci uccide,ci sfinisce,e impariamo da lui solo morte. Dico però,che le fiamme nascono dallo stesso meccanismo che regola il nostro esistere in questa città,e il relazionarci ad essa. A questo punto le ipotesi sono due: o esseri e incendio camminano su due binari paralleli che non si incroceranno mai,oppure la strada è la stessa,ma noi siamo lentissimi a percorrerla e comprenderla,e l’incendio è così veloce nel suo avanzare,che non lo riconosciamo come legato a noi. C’è qualcuno tra di voi,dei più saggi e perspicaci,il quale afferma che gli dei creatori sono così vasti,crudeli,e tanto è il loro potere,che ignorerebbero perfettamente la scomparsa della nostra città e dei suoi abitanti,invece io vi dico che noi fratelli e il creato che ci circonda,siamo la stessa cosa. Si! Mi riferisco anche all’incendio. Solamente che noi siamo una manifestazione mille volte più complessa e quindi più lenta,rispetto al semplice fuoco distruttore. 

Noi ci autodefiniamo,siamo liberi di agire,e comprendiamo con lentezza ed erroneamente il gioco di meccanismi che ci sovrasta,il fuoco,invece,non si  autodefinisce,agisce,esso non è niente,brucia e basta. Una tale lontananza tra noi e l’incendio ci vede quindi, come figli di una stessa volontà che si respingono a vicenda,come una lotta tra due fratelli dove il più grande,è anche il più insensibile e stupido,ma anche il più forte,e per evitare che un giorno il proprio fratellino più debole,mille volte più intelligente ma ancora lento nel suo apprendere,possa spodestarlo,lo uccide. Per finire,vorrei paragonare ancora ciò che ho detto ad una grande opera di teatro,come se ne facevano un tempo. Sapete infatti,che il ruolo di un attore è molto più complicato del semplice addetto alle luci,chi improvvisa su una parte deve saper piangere,ridere,muoversi correttamente,e non è un caso che gli attori posseggano doti particolari a differenza di coloro che semplicemente si occupano di aprire e chiudere il sipario o accendere una determinata luce. Infatti,il pubblico comprende spesso unicamente il significato delle varie parti nella recita,pensa che l’accendersi di una luce,o la posizione di un cespuglio in un determinato luogo,siano solo casuali invenzioni scenografiche,non hanno alcun ruolo al fine di una corretta riuscita della rappresentazione. Eppure,per chi si intende un minimo di recitazione,ciò non è vero,anche gli aspetti diversi e meno comprensibili di un’opera teatrale hanno il loro ruolo,anche i meno complessi come il semplice cespuglio di cartone che sta alle spalle dell’attore. Ecco allora che per me gli esseri sono come gli attori,e l’incendio è come il cespuglio alle nostre spalle,o la luce che si accende,tutto frutto di uno stesso meccanismo artistico,mi rammarico solo del fatto che non esista un vero pubblico-.

Alberto Patella
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Quanto resta di genuinamente democratico nell'attuale sistema di governo italiano?

Prima di provare a rispondere con qualche considerazione alla nostra domanda, è il caso di dare qualche garanzia ai lettori: questo non è - avete la nostra parola - uno dei soliti articoli che parlano semplicemente di quanto poco sia democratico Berlusconi e il suo modus agendi; sebbene egli sia effettivamente ben poco democratico lo scopo di questa analisi politica non si esaurisce in questa contingenza.

Se, infatti, ci fermiamo al significato originario del termine democrazia come potere del popolo, sarebbe molto ingenuo affermare che sia colpa del solo Berlusconi se oggi il popolo ha perso parte del suo potere; basti pensare ai fatti del dopoguerra e della prima Repubblica. Dobbiamo dunque ammettere che nell'Italia postfascista la democrazia non è stata mai davvero tale fino in fondo. A una tale constatazione segue una seconda domanda: la colpa è solo delle varie circostanze sfavorevoli (la pressione delle potenze straniere prima, poi la corruzione a tutti i livelli e nei suoi più vari significati) oppure è il sistema ad essere strutturalmente inadeguato a garantire un'effettiva gestione dal basso del potere?
La domanda non è affatto scontata; sulla risposta che potremo darvi si gioca la sorta di tutta la retorica dell'attuale politica non solo dell'Italia ma dell'intero Occidente; essa è fondata sul mito dell'eccezionalità della democrazia occidentale, un' eccezionalità che legittima non solo il nostro diritto a difenderla, ma anche quello di esportarla altrove con la forza. E, dato che il modello occidentale di democrazia è generalmente quello rappresentativo (quello che si basa cioè sulla delega del potere dal popolo a un numero relativamente ristretto di rappresentanti eletti) e che questo - essendo anche il caso italiano - ci riguarda più da vicino, la nostra domanda può essere espressa più propriamente in questi termini: delle libere elezioni sono sufficienti a garantire una reale partecipazione del popolo nella gestione del potere?


Di questo tema parla diffusamente Amartya Sen ne "La democrazia degli altri"; nella nostra breve disamina proveremo a prendere come guida alcune illuminanti citazioni da questo testo.

"E' di cruciale importanza rendersi conto che la democrazia ha esigenze che vanno ben oltre quelle dell'urna elettorale[...]In realtà, le elezioni sono solo un modo - benchè sicuramente uno dei più importanti - per dare un'efficacia concreta ai dibattiti pubblici, ammesso che la possibilità di votare si accompagni a quella di parlare, e di ascoltare, senza paura. Il significato e il valore delle elezioni dipendono in modo sostanziale dalla possibilità di una discussione pubblica aperta. " capitolo I - "Democrazia e discussione pubblica", pagina 8.

Senza la possibilità per il popolo di informarsi sui temi caldi di governo, di discuterne liberamente e senza paura e, soprattutto, di influenzare direttamente con la propria opinione le decisioni dei governanti, l'essenza stessa della democrazia cade nel nulla. Il perchè è fin troppo ovvio. Una votazione che sia davvero razionale richiede determinate competenze sulle questioni che concernono la nazione: la pessima abitudine degli Italiani di votare "un partito per tutta la vita", di comportarsi nei riguardi della propria fazione politica come ci si comporta con la propria squadra del cuore, è quanto di più dannoso per la democrazia possa esserci.
Specie perchè se non si è abbastanza critici nei confronti delle stesse persone che noi, con il nostro voto, abbiamo eletto, il popolo perde qualsiasi controllo sull'operato effettivo dei suoi rappresentanti. Si può eleggere qualcuno in cambio di determinate garanzie e quelle garanzie possono venir disattese - e abitualmente lo sono; se per lo stesso elettore ciò non ha la dovuta importanza, se sottovaluterò le mancanze del "mio" partito politico e continuerò a rieleggerlo nonostante tutto per faziosità, sentimentalismo o semplice abitudine, gli stessi governanti si sentiranno in diritto di mantenere la loro pessima abitudine di ritenersi privi di qualsiasi dovere e responsabilità nei confronti del popolo. Ma questa è precisamente una forma di oligarchia, che di democratico non ha più null'altro che il nome.

Peggio ancora, poi, quando sono gli stessi governanti ad adoperarsi affinchè il popolo resti nell'ignoranza - per interesse o per la vecchia convinzione che  il popolo, come un eterno bambino, ha bisogno di essere guidato dall'alto con mano salda per il suo stesso bene.
Ci sentiamo di affermare che la gravissima manovra a danno dei siti internet a scopo informativo rientri appieno nel primo caso. Chiaramente nessuno di noi è a favore della "libera diffamazione". E' vero altresì che la formulazione di una simile norma, più che una tutela dei diritti di qualsiasi cittadino, sembra essere un cappio pronto a stringersi intorno al collo degli informatori di rete più molesti: chi di noi gestori di piccoli e medi blog o siti a scopo informativo può garantire al 100% di essere sempre in grado di eseguire una rettifica entro le 48 ore, in qualsiasi periodo dell'anno venga richiesta? E chi di noi potrebbe, essendo accusato ingiustamente o solo per qualche mero dettaglio formale di diffamazione, permettersi le spese legali che un'equa difesa comporta?
Probabilmente è di stampo simile l'intero Disegno di Legge sulle Intercettazioni, sebbene in questo caso la discussione sia molto più complessa dato che spesso da parte di una certa stampa è stato effettivamente violato il diritto alla privacy degli intercettati riguardo questioni non strettamente inerenti al risvolto politico o legale della faccenda (i quali invece, riguardando l'intera comunità, dovrebbero poter essere legittimamente pubblicati una volta rimosso il segreto.)


Una violazione sostanziale della democrazia ben più grave è rappresentata dall' estensione del Segreto di Stato anche a questioni che riguardano località e modalità della costruzione delle centrali nucleari : scelta presa probabilmente per evitare che il popolo potesse esprimere, a livello locale, la propria opposizione: doppiamente grave perchè da un lato ostacola la presa di consapevolezza proprio di chi sarà più coinvolto, perchè risiedente nel territorio interessato; dall'altro si oppone frontalmente ad una chiara e netta espressione della diffidenza popolare nei confronti di una tale forma di approvigionamento energetico (i referendum del 1987).

La stessa forma di deliberato disinteresse nei riguardi della volontà popolare è stata manifestata da ben due governi (si vedano al riguardo un intervento di Berlusconi e uno di Prodi) riguardo la annosa e dibattuta questione sulla TAV. In questo caso i cittadini si sono avvalsi del loro diritto (e dovere) di informarsi, discutere pubblicamente questioni di interesse locale e nazionale e di partecipare ad una sorta di confronto e deliberazione pubblica informale, quali forse possono essere considerate, in qualche modo, le mobilitazioni di massa. Ci sentiamo di dire che il popolo ha espresso abbastanza chiaramente la propria opinione al riguardo. Riteniamo del tutto antidemocratica la scelta di ignorare la volontà dei cittadini coinvolti - se non di tutti, perlomeno possiamo dire di una consistente fetta - e di ritenersi legittimati ad utilizzare addirittura la forza per garantirsi da qualsiasi opposizione diretta degli abitanti del territorio.

Detto ciò, crediamo di aver mostrato abbastanza chiaramente come delle elezioni pubbliche da sole non siano affatto garanzia di una forma di governo democratica. Anzi, riteniamo che attualmente la democrazia pura non trovi quasi nessuna applicazione in Occidente, e di certo non nei paesi con un sistema rappresentativo. Partendo da questo dato di fatto assodato, possiamo altresì ammettere che per gli Stati nazionali una vera e propria democrazia diretta (cioè in cui il popolo è chiamato a decidere direttamente delle leggi e delle loro applicazioni) presenterebbe ad oggi non pochi problemi - per decidere su determinate questioni serve senza dubbio una competenza che va oltre quella dell'attuale uomo medio. Per adesso non ci sono formulazioni efficienti della democrazia diretta, ma ciò non vuol dire che non se ne troveranno in futuro; pertanto, riteniamo che non dovremmo mai stancarci di aspirare a quella meta.

Per quanto riguarda l'attuale stato delle cose, siamo certi che anche in un sistema rappresentativo che voglia funzionare a dovere il governo eletto non debba mai trascurare il proprio legame con il popolo; e viceversa che il popolo non debba mai dimenticare di essere l'unico reale detentore del potere. Il diritto (nonchè dovere) all'informazione, alla discussione, alla deliberazione pubblica è fondamentale per qualsiasi Democrazia rappresentativa che voglia restare tale e salvaguardarsi da una deriva oligarchica altrimenti inevitabile.

Aaron Allegra.
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